GIUGNO 23 – Discrezionalità P.A.

Le scelte dell’ente locale in materia di pianificazione attuativa: la discrezionalità della P.A.

La focalizzazione del tema oggetto di indagine richiede di valutare preliminarmente il grado di discrezionalità che connota le scelte adottate dal Comune in relazione alle varie tipologie di intervento urbanistico-edificatorio.

Al riguardo è necessario distinguere la discrezionalità cd. “tecnica” dalla discrezionalità cd. “pura”: si parla di discrezionalità tecnica quando la Pubblica amministrazione è chiamata a verificare, sulla base di canoni scientifici e tecnici, la sussistenza dei presupposti per l’adozione nel caso di specie di un determinato atto; mentre si parla di discrezionalità pura quando la P.A. è chiamata ad effettuare valutazioni di opportunità e convenienza, previo bilanciamento di interessi, nella scelta della misura amministrativa più idonea a soddisfare le finalità pubbliche da essa perseguite. Detto altrimenti, nel primo caso viene in rilievo una soluzione tecnico-scientifica individuata sulla base di regole non giuridiche, nel secondo, invece, ricorre una scelta politica amministrativa assunta in base ad una valutazione degli interessi. [1]

Questa bipartizione si traduce in una diversa intensità del sindacato giurisdizionale sull’operato della Pubblica amministrazione: il sindacato sulla discrezionalità tecnica, infatti, è più “incisivo” rispetto a quello esercitabile sulla discrezionalità pura. In particolare, ad avviso della giurisprudenza amministrativa, «la discrezionalità tecnica esprime un concetto diverso dal merito amministrativo e pertanto non può essere aprioristicamente sottratta al sindacato da parte del giudice amministrativo atteso che l’apprezzamento degli elementi di fatto del provvedimento, siano essi semplici o complessi, attiene comunque alla legittimità di quest’ultimo».[2] (Consiglio di Stato, Sez. VI, 24/04/2019 n. 2625).

La giurisprudenza amministrativa riconosce poi l’esistenza di un tertium genus di discrezionalità, che affianca le due forme precedentemente menzionate: la cd. discrezionalità cd. “mista”, «nella quale si compenetrano elementi di discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa in quanto il potere esercitato dall’Amministrazione nelle materie in questione deve tenere conto non soltanto dei vari interessi, pubblici e privati, che possono venire in rilievo nella valutazione, ma altresì di una serie di profili tecnici – cd.tti fatti complessi […]». (T.A.R. Piemonte, Sez. II, 09/05/2014 n. 821).

Detto altrimenti, la discrezionalità mista si esercita attraverso un procedimento bifasico: in un primo momento la Pubblica amministrazione è chiamata a valutare fatti complessi attraverso la previa individuazione ed applicazione di regole e canoni tecnico-specialistici; in una seconda fase essa è chiamata ad effettuare una vera e propria scelta di merito fra le misure ritenute più idonee a realizzare l’interesse pubblico sulla base di una ponderazione comparativa di valori contrapposti, che assume come suo presupposto la situazione fattuale valutata dal punto di vista tecnico.

Alla luce delle considerazioni finora esposte e, applicandole al tema in questione, pare si possa ragionevolmente affermare che la forma di discrezionalità che connota l’operato dell’ente locale in materia di pianificazione attuativa sia, nella maggior parte dei casi, di tipo “misto”.

E dunque,  «in sede di approvazione di un Piano attuativo, all’Amministrazione Comunale spetta un’ampia discrezionalità valutativa che non verte solo sugli aspetti tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli strumenti urbanistici di livello superiore, ma coinvolge anche l’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a determinate condizioni, alle previsioni dello strumento urbanistico generale, sussistendo tra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; ciò perché la pianificazione attuativa costituisce pur sempre espressione della potestà pianificatoria, seppur declinata in ottica più specifica e operativa, con la conseguente sussistenza dei margini di discrezionalità che ad essa si correlano». (Consiglio Stato Sez. IV, 20/11/2020, n. 7210).

Si è anche sancito, quale conseguenza di tale amplia discrezionalità valutativa in capo al Comune, che «deve ritenersi del tutto fisiologica l’ipotesi che un piano attuativo sia prima adottato e successivamente non approvato, tenuto conto che la struttura bifasica del procedimento è proprio volta a consentire, alla luce di osservazioni e rilievi nel frattempo raccolti, eventuali interventi correttivi». [3]

Invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, «l’approvazione di un piano attuativo di iniziativa privata non è un atto dovuto, ancorché il medesimo risulti conforme al piano regolatore generale, perché, sussistendo un rapporto di necessaria compatibilità ma non di formale coincidenza tra quest’ultimo e i suoi strumenti attuativi ed essendovi una pluralità di modi con i quali dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale, è ineliminabile la sussistenza di un potere discrezionale nella valutazione delle soluzioni proposte, dato che il Comune non si limita a svolgere un semplice riscontro della conformità del piano allo strumento generale, ma esercita pur sempre poteri di pianificazione del territorio e pertanto può negare l’approvazione del piano attuativo». (T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. II, 16/03/2020, n.485).

 

Piani attuativi e permesso di costruire: i casi in cui non è richiesta la previa approvazione dello strumento attuativo.

Dopo aver analizzato la disciplina dei Piani attuativi e della relativa efficacia, è bene procedere alla disamina, con il sussidio della giurisprudenza formatasi in proposito, del rapporto tra pianificazione attuativa e la possibilità di realizzare interventi diretti, senza preventiva approvazione del Piano urbanistico-esecutivo.

Ai fini di una migliore comprensione della tematica de qua, occorre richiamare preliminarmente l’articolo 9 del D.P.R. n. 380/2001[4], il quale stabilisce che fatti salvi «i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490,1 nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti» alcuni interventi specificatamente individuati dalla disposizione in esame.

Nel dettaglio, la lettera a) del primo comma dell’articolo 9 D.P.R. 380/2001 ricomprende sia gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, sia anche quelli di restauro e di risanamento conservativo che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse (rispettivamente disciplinati dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell’articolo 3 D.P.R. n. 380/2001).

Ulteriormente, la lettera b) del primo comma dell’articolo 9 D.P.R. 380/2001 individua, in relazione alle aree fuori dal perimetro dei centri abitati «gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà».

Da ultimo, al secondo comma dell’articolo 9 del D.P.R. n. 380/2001 viene specificato che «nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi» di cui alla lettera a) sopra indicati[5] sono altresì consentiti gli interventi di ristrutturazione edilizia[6] che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse.

Sul punto, la Corte Costituzionale ha sancito che «la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali». (Corte Costituzionale, 13/04/2017, n.84).

Analogamente, la Corte di vertice amministrativa ha dichiarato che «costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del PRG che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire l’intervento diretto costruttivo». (Consiglio di Stato, Sez. VII, 28/02/2023, n.2048).

Da tale regola di principio sono stati ricavati i seguenti corollari: «a) quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento; b) in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa […]; c) all’assenza del piano attuativo non può sopperirsi con l’imposizione di opere di urbanizzazione all’atto del rilascio del titolo edilizio». [7]

Ne consegue che, in materia edilizia, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. consente il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo: più in particolare, la figura del “lotto intercluso” si realizza quando l’area di interesse sia l’unica a non essere stata ancora edificata, si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni, sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie) previste dagli strumenti urbanistici, sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al P.R.G., sì che, in definitiva, si versi in una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo.

Invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa «la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione)». (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21/03/2023, n.2839).

Ciò, in quanto l’esigenza di un Piano attuativo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, «si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (d.p.r. n. 380/2001, T.U. Edilizia)».[8]

Tali essendo la ratio e la natura eccezionale della regola sottesa al cd. “lotto intercluso”, «per escludere la necessità della pianificazione attuativa è necessario valutare la sufficienza dell’urbanizzazione esistente, considerando a tal fine un rapporto di proporzionalità fra i bisogni degli abitanti insediati con quelli ancora da insediare nella zona con la previsione e la quantità e qualità degli impianti urbanizzati già disponibili destinati a soddisfarli».[9]

In tale prospettazione, un’interessante sentenza del T.A.R. Lazio ha evidenziato che l’esonero dal Piano attuativo previsto dal P.R.G. non può avvenire « se esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto», con la conseguenza che «in presenza di un’area degradata da riorganizzare urbanisticamente e qualificare ambientalmente e paesisticamente, recuperando le superfici minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, il piano di recupero si pone a presidio di uno sviluppo programmato del territorio (non assolvendo la sola funzione di recupero edilizio di compendi immobiliari fatiscenti), con la conseguenza che “fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di suolo”». (T.A.R. Roma (Lazio), 12/05/2022, n. 5917).

 

[1]  R. Villata, M. Ramajoli, «Il provvedimento amministrativo», Torino, 2017, 121.

[2] Mentre nel caso della discrezionalità “pura” il giudice, non potendosi ingerire nelle scelte di merito della Pubblica Amministrazione, può esercitare un controllo estrinseco sui profili di legittimità dell’azione pubblica correlati all’eccesso di potere, in relazione alla discrezionalità tecnica il giudice può spingersi a sindacare «se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità a parametri tecnici, che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato». (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05/03/2010 n. 1274). Anche in quest’ultimo caso, però, «la censurabilità della discrezionalità tecnica non deve mai arrivare alla sostituzione del giudice all’amministrazione nell’effettuazione di valutazioni opinabili, ma deve consistere nel controllo, ab externo, dell’esattezza e correttezza dei parametri della scienza utilizzata nel giudizio». (Consiglio di Stato, Sez. V, 07/01/2019, n. 173).

[3] Consiglio di Stato, sez. IV, 20/11/2020, n. 7210.

[4] D.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 – «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia».

[5] Gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, sia quelli di restauro e di risanamento conservativo (rispettivamente disciplinati dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell’articolo 3 D.P.R. n. 380/2001).

[6]  Di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 D.P.R. n. 380/2001.

[7] Consiglio di Stato, sez. VII, 28/02/2023, n.2048.

[8] Consiglio di Stato, Sez. IV, 21/03/2023, n.2839.

[9] Consiglio di Stato, Sez. IV, 21/03/2023, n.2839.