LUGLIO 2023 – Pergotende ed altre fattispecie controverse giurisprudenza

Pergotende ed altre fattispecie controverse. Le posizioni della giurisprudenza amministrativa.

 

La lettera e-quinquies) del primo comma dell’articolo 6 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce che – fermi i limiti rappresentati dalle previsioni di cui agli strumenti urbanistici comunali e dalle normative di settore aventi incidenza su attività edilizia, nonché concernenti le disposizioni in tema di tutela paesaggistica e culturale – possano essere realizzati senza alcun titolo abilitativo, oltre che le «aree ludiche senza fini di lucro», anche gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici».

 

Al riguardo va però ricordato che l’articolo 3 del D.P.R. n. 380/2001, nel recare le «Definizioni degli interventi edilizi»,  al primo comma, lettera e) ricomprende tra gli interventi di nuova costruzione – i quali si rammenta, sono subordinati a permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 10, lettera a)[1] «quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti», sancendo che «sono comunque da considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6);

[…]

e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale».

 

Al fine di distinguere, pertanto, tra interventi pertinenziali che in ragione delle loro caratteristiche richiedono il preventivo rilascio del titolo abilitativo e le opere che, al contrario, sono eseguibili liberamente in quanto consistenti in meri «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» – oltre a fare riferimento alle disposizioni normative appena richiamate, a quanto stabilito all’interno del Glossario edilizia libera ed alle previsioni eventualmente contenute negli strumenti urbanistici comunali (richiamate sia dall’articolo 6, sia dall’articolo 3 del D.P.R. n. 380/2001), ferme peraltro le definizioni oggi individuate dal R.E.T. (in primis quella di «Pertinenza» di cui alla voce 34, quale «Opera edilizia legata da un rapporto di strumentalità e complementarietà rispetto alla costruzione principale, non utilizzabile autonomamente e di dimensioni modeste o comunque rapportate al carattere di accessorietà») – è spesso intervenuta in soccorso la giurisprudenza.

 

Attese le premesse di cui sopra, nonché in considerazione delle ulteriori e molteplici casistiche di difficile inquadramento riscontrabili nella prassi, appare di interesse richiamare brevemente varie decisioni, espressione delle posizioni più o meno consolidate nel panorama giurisprudenziale in ordine ad alcune tra le fattispecie maggiormente controverse.

 

Partendo dalla casistica relativa alle pergotende, può citarsi in primis una recente sentenza del T.A.R. di Roma che – sulla scorta di un consolidato orientamento – ha individuato le condizioni affinché possa ravvisarsi una pergotenda, anche cd. «bioclimatica», distinguendola peraltro dall’ipotesi di realizzazione di una tettoia, affermando che a tal fine «è necessario che l’opera in contestazione, per le sue caratteristiche strutturali e per i materiali utilizzati, non determini la stabile realizzazione di nuovi volumi/superfici utili.

 

Deve, quindi, trattasi di una struttura leggera, non stabilmente infissa al suolo, idonea a supportare “tenda”, anche in materiale plastico (c.d. “pergotenda”), a condizione che:

 

– l’opera principale sia costituita, appunto, dalla “tenda” quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata a una migliore fruizione dello spazio esterno;

– la struttura rappresenti un mero elemento accessorio rispetto alla tenda, necessario al sostegno e all’estensione della stessa;

– gli elementi di copertura e di chiusura (la “tenda”) siano non soltanto facilmente amovibili ma anche completamente retraibili, in materiale plastico o in tessuto, comunque privi di elementi di fissità, stabilità e permanenza tali da creare uno spazio chiuso, stabilmente configurato che possa alterare la sagoma ed il prospetto dell’edificio “principale” (così Consiglio di Stato sez. IV, 01/07/2019, n. 4472; VI, 03/04/2019, n. 2206; in termini, Consiglio di Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4177; Cons. Stato, Sez. VI, 25 dicembre 2017 n. 306, Id., Sez. VI, 27 aprile 2016 n. 1619).

 

In altri termini, per aversi una “pergotenda” e non già una “tettoia”, è necessario che l’eventuale copertura in materiale plastico sia completamente retrattile, ovvero “impacchettabile”, così da escludere la realizzazione di nuovo volume (su tale punto, cfr. Cons. Stato Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3393; Cons. Stato, sez. II, 28 gennaio 2021 n. 840; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 17 maggio 2022, n. 3332; II, 16/06/2022, n. 1710; T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 31/10/2022, n. 715)».

 

Nel caso di specie, il T.A.R. di Roma non ha ritenuto integrati i suddetti presupposti, riscontrando come  «la pretesa “pergotenda” in contestazione integri, in realtà, gli estremi di una vera e propria tettoia» –  essendo anche mancante «la “tenda”, ossia la copertura in tessuto o materiale plastico facilmente amovibile e completamente ritraibile, essendo stata viceversa installata una struttura tutt’altro che “precaria”, le cui caratteristiche costruttive, dimensionali e funzionali hanno determinato una evidente modifica della sagoma e del prospetto della preesistente unità abitativa del ricorrente (cfr. T.A.R Emilia-Romagna, Parma, Sez. I, 30 agosto 2021 n. 221; T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 23/06/2021, n. 571; T.A.R. Lazio, Roma, II Quater, 9.03.2020, n. 3037)» – conseguentemente valutando l’opera realizzata sinu titulo, in quanto non rientrante nelle ipotesi di edilizia libera (T.A.R. Roma (Lazio), sez. II, n. 1117/2023).

 

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5781 del 2018, ha affermato che «[…] la voce di cui alla lettera e) quinquies […] considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo», ricordando che la norma è stata introdotta dal D.lgs. n. 222/2016 e che «in materia, è poi intervenuto […] un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 2 marzo 2018, di “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d. lgs. 222/2016. Tale decreto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.

 

Al polo opposto, v’è l’art. 10 comma 1 lettera a) del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”»: è stato così rilevato che «la giurisprudenza si fonda su tale ultima disposizione per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio […]». Si è quindi sostenuto che «sulla base di tale quadro normativo emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera»[2].

 

Più di recente la giurisprudenza di merito ha confermato che, per individuare quale sia il titolo edilizio occorrente per realizzare una determinata tettoia, occorre fare riferimento all’impatto effettivo che l’opera genera sul territorio, con la conseguenza che la stessa deve essere qualificata quale «nuova costruzione» – con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio del permesso a costruire – laddove, avuto riguardo alla sua struttura ed all’estensione dell’area relativa, sia idonea a determinare significative trasformazioni urbanistiche ed edilizie. Nel caso di una tettoia appoggiata ad un edificio esistente, il preventivo rilascio del permesso di costruire è stato ritenuto necessario allorché – per le sue caratteristiche costruttive – la tettoia sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio, essendo invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono (T.A.R. Catanzaro (Calabria), sez. II , n. 416/2023; in termini T.A.R. Napoli  (Campania), sez. II , n. 7450/2022T.A.R. Napoli (Campania), sez. II , n. 7456/2022, secondo cui la realizzazione di una tettoia di grandi dimensioni, dotata di copertura in lamiere poggiate su orditura in ferro, poiché non integra una struttura leggera facilmente smontabile e demolibile, comportando inoltre la trasformazione edilizia del territorio ex articolo 3, comma 1, lettera e) del D.P.R. n. 380/2001, deve essere identificata come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio del titolo abilitativo; T.A.R. Roma (Lazio), sez. II , n. 11474/2022 secondo cui occorre il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio; diversamente, è sottratta al regime del permesso di costruire se la sua conformazione e ridotte dimensioni ne rendano evidente la finalità di mero arredo e riparo).

 

Secondo l’orientamento prevalente, dunque, non sussiste la natura pertinenziale nel caso in cui sia realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata un’opera qualsiasi, quale può essere ad esempio una tettoia, che ne alteri la sagoma (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5153/2022).

 

Si rintracciano anche una decisione del T.A.R. di Milano con cui è stato ricordato che «la pertinenza urbanistica o è irrilevante ai fini urbanistici e quindi non richiede titolo edilizio, oppure lo è e quindi è assoggettata a titolo edilizio, anche in sanatoria» e stabilito che «la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent. 04-10-2021, n. 6613; Consiglio di Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 19; Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952; Sez. V, 12 febbraio 2013, n. 817; Sez. IV, 2 febbraio 2012, n. 615)» (T.A.R. Milano (Lombardia), sez. II, n. 2267/2021).

 

Preme richiamare anche delle decisioni rese con riguardo alle piscine, atteso che – in continuità con costante giurisprudenza amministrativa – si è sostenuto che la realizzazione di tale opera «[…]in un complesso immobiliare preesistente non costituisca pertinenza urbanistica in senso proprio, ma una nuova costruzione, comportando inevitabilmente la modifica durevole del preesistente assetto dei luoghi e avendo essa funzione autonoma rispetto a quella propria dell’edificio cui accede. A differenza di altri manufatti, la piscina non è necessariamente complementare all’uso delle abitazioni e non costituisce soltanto un’attrezzatura per lo svago, ma integra una struttura edilizia suscettibile di autonoma fruizione, che incide in maniera rilevante e con effetti permanenti sull’area in cui insiste, richiedendo, quindi, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad aedificandum (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 18.01.2022, n. 76 con ampi rimandi giurisprudenziali)», per tale motivo ritenendo che «poiché la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell’assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori […] per la sua realizzazione è richiesto il permesso di costruire, così come per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione comportanti la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio» (T.A.R. Torino (Piemonte), sez. II , n. 703/2022; in termini cfr. T.A.R. Salerno (Campania), sez. III, n. 2262/2022; T.A.R. Catania (Sicilia); sez. III, n. 1508/2022).

 

Ciò nonostante, si rinviene anche un certo orientamento che – pur constando che «[…] in linea di principio, per “nuova costruzione” si intende qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo; il tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell’irreversibilità spazio-temporale dell’intervento» e che «la configurabilità di una pertinenza urbanistico-edilizia richiede, invece, non solo la sussistenza di un rapporto funzionale costituto dal nesso strumentale dell’opera accessoria a quella principale, ma anche un elemento strutturale ovvero una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce; l’esiguità deve essere un elemento ineliminabile, atteso che l’opera non deve creare un carico urbanistico (TAR Napoli, Sez. II, 04.02.2020, n. 535; Cons. Stato, Sez. II, 22 luglio 2019, n. 5130; TAR Roma, Sez. II, 11 luglio 2019, n. 9223; Cons. Stato, Sez.V, 51280 10/11/2017)» – con riferimento al profilo controverso della piscina ha statuito che «[…] “l’installazione di una piscina che non abbia dimensioni rilevanti, realizzata in una proprietà privata a corredo esclusivo della stessa, deve considerarsi alla stregua di una pertinenza esclusiva dell’immobile esistente, essendo destinata a servizio dello stesso e secondo cui tali considerazioni non possono che estendersi alle opere di sistemazione ed a quelle concernenti i locali di servizio (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2019, n. 6644 e Sez. V, 16 aprile 2014, n. 1951)”» (T.A.R. Salerno (Campania), sez. II, n. 1872/2021; in termini cfr. T.A.R. Salerno (Campania), sez. II, n. 365/2021; T.A.R. Salerno (Campania), sez. II, n. 2639/2021).

 

Passando all’esame di una casistica del tutto differente – ma di sicuro interesse – si osserva come un consolidato indirizzo pretorio ritenga che «[…] in via generale, la posa di una recinzione – manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni – è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, e per pacifica giurisprudenza persino la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell’art. 841 del c.c. […]»: il titolo abilitativo edilizio non è necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, in quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà che comprende lo «jus excludendi alios» (T.A.R. Brescia (Lombardia), sez. II, n. 907/2018).

 

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire più volte, difatti, che «[…] la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un’opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull’assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria […]» (T.A.R. Roma (Lazio), sez. II, n. 9529/2017).

 

Costituisce jus receptum, dunque, il principio – recentemente riaffermato dal Consiglio di Stato – a mente del quale «[…] in materia urbanistica, non è necessario un idoneo titolo edilizio per la realizzazione di una recinzione nel caso in cui sia posta in essere una trasformazione dalla quale, per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni ridotte dell’intervento, non derivi un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, pertanto la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios va riscontrata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 29 novembre 2019, n. 8178). […]» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1609/2022).

 

In proposito va rammentato che lo «ius excludendi alios» trova il suo principale riferimento normativo nel già menzionato articolo 841 del codice civile – disposizione inserita nel Libro III «Della proprietà», nel Capo dedicato alla proprietà fondiaria[3] – mediante cui viene disciplinata la «Chiusura del fondo», prevedendo che «il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo».

 

[1] Cfr. anche l’articolo 23, comma 01 del D.P.R. n. 380/2001 in ordine agli «Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire», norma che individua gli interventi di nuova costruzione realizzabili mediante S.C.I.A. alternativa al permesso di costruire.

[2] In termini cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2715/2018.

 

[3] Titolo II «Della proprietà», CAPO II «Della proprietà fondiaria», SEZIONE I «Disposizioni generali».