Permesso di costruire: limiti e applicazioni dell’istituto del silenzio-assenso
La sentenza Consiglio di Stato sez. VI, 30/11/2023 n. 10382 si colloca nel dibattito giurisprudenziale avente ad oggetto l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali si possa ritenere formato il silenzio-assenso sulla richiesta di permesso di costruire non riscontrata espressamente dalla P.A. ed aderisce all’orientamento secondo cui il silenzio-assenso si forma a prescindere dalla sussistenza dei presupposti sostanziali prescritti dalla normativa di riferimento[1].
La pronuncia in esame, dopo aver acclarato il principio secondo cui “il silenzio assenso è un principio generale posto a presidio della celerità dell’azione ammnistrativa, nonché della semplificazione e della certezza dei rapporti con i cittadini, principio che in ultima analisi risponde a quello di buon andamento previsto dall’art. 97 della Costituzione”, si sofferma sul valore del silenzio statuendo che “anche ove l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non sia conforme alle norme, si rende comunque configurabile la formazione del silenzio assenso. Ciò, si ritiene confermato da puntuali ed univoci indici normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire il silenzio-assenso sarebbe legata, non solo al decorso del termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo”.
Al riguardo, viene richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 08/07/2022, n. 5746 secondo cui :“Segnatamente, deve tenersi conto delle seguenti disposizioni: “i) l’espressa previsione della annullabilità d’ufficio anche nel caso in cui il “provvedimento si sia formato ai sensi dell’art. 20”, presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell’atto; ii) l’art. 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020) – nella parte in cui afferma che “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, […] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni” – conferma che, decorso il termine, all’Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela; iii) l’art. 2, comma 2-bis – prevedendo che “Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo […]” (analoga, ma non identica, disposizione è contenuta all’ultimo periodo dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001) – stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad un’attestazione che deve dare unicamente conto dell’inutile decorso dei termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego tempestivamente intervenuti); iv) l’abrogazione dell’art. 21, comma 2, della legge n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato corso all’attività secondo il modulo del silenzio-assenso, “in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente”; v) l’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 – secondo cui: “Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi […] -, da cui si desume che, in caso di dichiarazioni non false, ma semplicemente incomplete, il silenzio-assenso si perfeziona comunque (al riguardo, sussiste una antinomia, che non rileva sciogliere in questa sede, con l’art. 21-nonies, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, il quale riconduce all’autotutela anche l’ipotesi di “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, salva la possibilità di auto-annullamento anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi)”.
Sulla scorta di quanto sopra, è stato evidenziato che nella situazione di attuale interesse, al fine di dare un senso alla previsione normativa in forza della quale opera il silenzio come manifestazione della volontà della Amministrazione, è necessaria una sua applicazione che sia il più possibile scevra da ulteriori filtri applicativi onde evitarne una neutralizzazione nei fatti: “non si tratta quindi di valutare se la domanda, in astratto sia assentibile in quanto in possesso di tutti i requisiti ma piuttosto se la domanda possiede quel minimum di elementi essenziali per il suo esame e non rappresenti erroneamente i fatti. In tali condizioni è l’amministrazione che deve svolgere il procedimento nei tempi prefissati dalla legge pena la formazione del silenzio”. Diversamente opinando, “la mancata applicazione della disciplina sul silenzio in considerazione della frapposizione per tale via di un “filtro” – non legislativamente previsto – comporterebbe la neutralizzazione della forza della disposizione sul silenzio, posta a garanzia dei cittadini, ed il conseguente spostamento in sede giurisdizionale della valutazione circa la congruità dell’istanza. Né – in una ottica di bilanciamento degli interessi in gioco – l’amministrazione rimane priva di possibilità di agire stante il potere di annullamento d’ufficio a fronte del formarsi del silenzio a causa dell’inadempimento a provvedere nei termini[2]”.
Decadenza del permesso di costruire: gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa sulla necessità di un provvedimento formale
L’art. 15, comma 2 del D.P.R. n. 380/2001, nel prevedere che decorsi i termini di inizio e di ultimazione lavori “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”, ha determinato il sorgere in giurisprudenza di un contrasto circa la necessità o meno dell’adozione di un provvedimento formale dinanzi alla decadenza del permesso di costruire.
Secondo una prima interpretazione la decadenza non dipende da un atto amministrativo, ma dal semplice fatto dell’inutile decorso del tempo; sicché “Una volta che sia inutilmente decorso il termine per il compimento dei lavori, la decadenza si produce dunque di diritto, qualora il termine stesso non sia stato prorogato, senza che peraltro vi sia bisogno di alcuna pronuncia espressa da parte dell’amministrazione, a differenza di quanto avviene per la proroga, che invece richiede un provvedimento motivato (Cons. Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1451). La pronuncia espressa della decadenza, infatti, non è nemmeno necessaria, giacché, diversamente opinando, si farebbe dipendere la decadenza non solo – secondo lo schema legale – dal comportamento inerte del titolare del permesso di costruire, ma anche dall’intervento della pubblica amministrazione, che potrebbe in taluni casi adottare il provvedimento espresso e in altri casi omettere di farlo, con possibili disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche” (T.A.R. Toscana, sez. III, 03/03/2022, n. 271).
Di contro, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa più recente, in specie del Consiglio di Stato, sostiene che la decadenza del permesso di costruire deve essere previamente “contestata” dall’amministrazione all’interessato mediante l’avvio di un procedimento ad hoc al fine di consentire a quest’ultimo di controdedurre in ordine alle ragioni, di fatto e di diritto, che gli avrebbero impedito di completare i lavori assentiti nei termini all’uopo previsti dall’art. 15 D.P.R. n. 380/2001 e, dunque, fornire al Comune tutti gli elementi utili alla valutazione circa l’effettiva decadenza del titolo edilizio. Sulla scorta di ciò, è stato affermato che “in conformità coi principi generali di trasparenza e certezza giuridica ex artt. 1 e 2 l. n. 241 del 1990, è sempre richiesto che l’amministrazione si pronunci con provvedimenti espressi, sia pure con valenza ricognitiva di effetti discendenti direttamente dalla legge, sicché risulta necessaria l’adozione di un formale provvedimento in relazione all’esercizio del potere attribuito dall’art. 15 t.u. edilizia” (Consiglio di Stato sez. IV, 16/03/2023, n. 2757).
In ordine ai caratteri del provvedimento di decadenza, la giurisprudenza si è espressa in merito alla ratio complessiva della disciplina dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) nel senso che essa consiste nell’obiettivo “di mantenere il controllo sull’attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell’opera iniziata”; ed in merito alla declaratoria di decadenza del permesso di costruire ha sancito che “costituisce un provvedimento avente non solo carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15, comma 2, ma anche natura ricognitiva del venir meno degli effetti del titolo precedentemente rilasciato” (Consiglio di Stato sez. VI, 20/12/2022, n.11110).
Sull’onere della prova circa il mancato inizio dei lavori, come osservato da Consiglio di Stato sez. IV, 23/05/2022, n. 4033, lo stesso “incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante”. In proposito, la recente pronuncia del Consiglio di Stato sez. VI, 07/12/2023, n. 10611 si è espressa sul concetto di “effettivo inizio dei lavori” affermando che “Ai sensi dell’art. 15, comma 3 del D.P.R. 5 giugno 2001 n. 380 (T.U. Edilizia) l’inizio lavori va inteso a fronte di concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto; pertanto i lavori debbono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici”.
Si segnala, inoltre, la giurisprudenza che attribuisce alla nozione di inizio lavori di un significato elastico per cui “L’inizio dei lavori richiesto per evitare la decadenza del titolo edilizio deve essere sempre rapportato all’entità e alle dimensioni dell’intervento edilizio autorizzato, in quanto la stessa nozione di inizio lavori è dinamica, dovendosi parametrare all’opera definitiva. Pertanto, è legittima la determinazione con la quale il Comune nega la sussistenza dei presupposti per la pronuncia di decadenza del titolo per la realizzazione di un parcheggio a raso con modeste opere accessorie per mancato inizio dei lavori nel termine prescritto di un anno dal relativo rilascio, decisione fondata sulla base della valutazione dell’entità delle opere effettuate, consistenti nell’allestimento del cantiere (picchetti, recinzioni ecc.) nonché nello sbancamento e spianamento del terreno di rilevanti dimensioni” (Consiglio di Stato sez. IV, 07/02/2023, n.1314).
Contribuito di costruzione: il criterio di determinazione degli oneri concessori
La recente pronuncia T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. IV, 22/01/2024, n.160 offre lo spunto per ribadire alcuni aspetti riguardanti l’istituto del contributo di costruzione il quale – normato dall’art. 16 del D.P.R. n. 380 del 2001 e articolato nelle due voci inerenti agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione – rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Invero, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della legge n. 10/1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio[3]. Più nello specifico, gli oneri di urbanizzazione, di natura latamente corrispettiva, hanno la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria; mentre il costo di costruzione è stato configurato alla stregua di una prestazione di natura pubblica, determinata tenendo conto della produzione di ricchezza generata dallo sfruttamento del territorio, ovvero quale compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore[4].
Il citato art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 dispone che “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni”, in relazione a una serie di indicatori tipizzati (comma 4); in mancanza di definizione delle tabelle parametriche regionali e fino alla definizione delle tabelle stesse, “i comuni provvedono, in via provvisoria, con deliberazione del consiglio comunale” (comma 5), come del pari “Ogni cinque anni i comuni provvedono ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (comma 6).
Il costo di costruzione per i nuovi edifici, invece, “è determinato periodicamente dalle regioni con riferimento ai costi massimi ammissibili per l’edilizia agevolata, definiti dalle stesse regioni a norma della lettera g) del primo comma dell’articolo 4 della legge 5 agosto 1978, n. 457. Con lo stesso provvedimento le regioni identificano classi di edifici con caratteristiche superiori a quelle considerate nelle vigenti disposizioni di legge per l’edilizia agevolata, per le quali sono determinate maggiorazioni del detto costo di costruzione in misura non superiore al 50 per cento. Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell’intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Il contributo afferente al permesso di costruire comprende una quota di detto costo, variabile dal 5 per cento al 20 per cento, che viene determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione” (comma 9); “Nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni” (comma 10).
Il contributo di costruzione, quale corrispettivo di diritto pubblico proprio per il fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio recepito dall’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 (cfr. Corte costituzionale, 10/04/2020, n. 64), “benché esso non sia legato da un rigido vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost. (Consiglio di Stato, Ad. plen., 30 agosto 2018, n. 12; IV, 7 novembre 2017, n. 5133). La debenza del contributo di costruzione, di conseguenza, è direttamente correlata all’effettiva trasformazione urbanistica ed edilizia e quindi al concreto impatto che la stessa determina sul territorio[5]”. Pertanto “qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, sorge in capo all’amministrazione, ex art. 2033 cod. civ., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione; con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente[6]” (T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. IV, 22/01/2024, n.160).
Il termine entro il quale il privato deve agire per chiedere la restituzione delle somme versate è quello di prescrizione decennale (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., 30/08/2018, n. 12), con la dovuta precisazione che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, “la decorrenza del termine di prescrizione decennale relativo alla restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione va poi calcolata partendo dal momento in cui il diritto al rimborso può essere effettivamente esercitato dal privato in applicazione di un principio generale di cui all’art. 2935 c.c. Di conseguenza, il diritto di credito del titolare di una concessione edilizia non utilizzata di ottenere la restituzione di quanto corrisposto per oneri di urbanizzazione, decorre non dalla data del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui il titolare comunica all’Amministrazione la propria intenzione di rinunciare al titolo abilitativo o dalla data di adozione da parte dell’amministrazione medesima del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire per scadenza dei termini iniziali o finali[7]”(T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. IV, 22/01/2024, n.160).
Sotto ulteriore profilo, secondo quanto citato dalla richiamata pronuncia Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 12/2018, “la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento”.
La sentenza in commento afferma da ultimo che l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 241/1990, ma l’operatività del principio del legittimo affidamento del privato esclude comunque l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. relativo alla disciplina dell’errore riconoscibile in quanto la complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale incertezza dell’applicazione delle tabelle per ragioni tecniche non possono essere considerati eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, tanto più che lo stesso è chiamato, “con l’ordinaria diligenza di cui agli artt. 1175,1375 c.c., a controllarne l’esattezza sin dal primo atto di determinazione”. Unica eccezione si riscontra nella ipotesi in cui la conoscibilità ovvero la verificabilità del contributo non siano possibili “con il normale sforzo richiesto al debitore[8]”.
[1] Si rammenta che l’art. 20, comma 7 del D.P.R. n. 380/2001 “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti”.
[2] ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 04/09/2023, n. 8156.
[3] Consiglio di Stato, Ad. plen., 7 dicembre 2016, n. 24; altresì, Ad. plen., 30 agosto 2018, n. 12; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 luglio 2020, n. 1418; II, 15 maggio 2020, n. 828.
[4] ex multis, Consiglio di Stato, II, 15 giugno 2021, n. 4633; II, 9 dicembre 2019, n. 8377; V, 21 novembre 2018, n. 6592.
[5] cfr. Consiglio di Stato, II, 15 giugno 2021, n. 4633.
[6] T.A.R. Lombardia, Milano, II, 7 gennaio 2016, n. 12; altresì, Consiglio di Stato, Ad. plen., 30 agosto 2018, n. 12; II, 15 giugno 2021, n. 4633; IV, 15 ottobre 2019, n. 7020; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 luglio 2020, n. 1418; T.A.R. Lombardia, Brescia, II, 2 maggio 2019, n. 426; T.A.R. Puglia, Bari, III, 3 aprile 2018, n. 488; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 1° marzo 2017; n. 496; T.A.R. Sicilia, Catania, II, 27 gennaio 2017, n. 189.
[7] Consiglio di Stato, IV, 11 gennaio 2021, n. 349; altresì, T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, II, 1° luglio 2013, n. 489.