Le condizioni per il perfezionamento della SCIA
Un’altra tematica su cui si sono registrati cospicui interventi da parte della giurisprudenza riguarda la possibilità che la SCIA si perfezioni o meno in caso di incompletezza o di non veridicità delle dichiarazioni rese dal privato, ovvero di insussistenza dei presupposti per avviare l’attività con lo strumento in esame.
Giova premettere che, per giurisprudenza consolidata, la SCIA ha natura di atto soggettivamente e oggettivamente privato con il quale si comunica alla P.A. l’intenzione di intraprendere una data attività direttamente ammessa dalla legge ed alla cui presentazione segue, decorso il termine di legge, la decadenza dell’amministrazione del potere di inibire tale attività. Essa, dunque, non è assimilabile a un’istanza su cui l’Amministrazione sia tenuta a provvedere, con la conseguenza che “la segnalazione certificata di inizio di attività, costituente uno strumento di liberalizzazione delle attività private – non più sottoposte ad un controllo amministrativo di tipo preventivo, ma avviabili sulla base di una mera segnalazione da sottoporre al successivo controllo amministrativo -perché possa produrre effetti giuridici deve, dunque, rispondere al modello tipizzato dal legislatore, occorrendo, pertanto, non soltanto che le attività in concreto avviate siano riconducibili alle fattispecie astratte per cui è ammesso l’utilizzo della SCIA, ma anche che la segnalazione all’uopo presentata risulti veritiera e completa, essendo corredata dalla documentazione occorrente a porre l’Amministrazione in condizione di potere svolgere la successiva attività di verifica entro i termini all’uopo applicabili” (Consiglio di Stato sez. VII, 21/02/2023, n.1782).
In questo senso, si registra un consistente orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di intervento edilizio realizzato all’esito di presentazione di s.c.i.a., per il quale era tuttavia precluso il ricorso a detto titolo abilitativo, esigendosi di contro il rilascio di permesso di costruire, non trova applicazione il termine decadenziale per l’esercizio del potere inibitorio previsto dall’art. 19 della l. n. 241 del 1990, il cui decorso esaurisce gli ordinari poteri di vigilanza edilizia, in quanto tale termine opera solamente nelle ipotesi in cui gli interventi realizzati o realizzandi rientrino fra quelli eseguibili mediante s.c.i.a.; per gli interventi soggetti a permesso di costruire, invece, deve applicarsi il comma 2-bis dell’art. 21 della medesima legge a mente del quale restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20” (T.A.R. Bari (Puglia), sez. I, 11/11/2023, n. 1321).
Analogamente, il Consiglio di Stato si è ripetutamente espresso, in termini più generali, nel senso che affinché la SCIA possa essere idonea allo scopo sono necessarie la sussistenza e la completezza della relativa documentazione, dovendo la stessa, anche se intesa quale atto del privato, corrispondere al modello legale per poter produrre effetti[1]; e ancora “deve […] ritenersi che una SCIA fondata su documenti incompleti o non veritieri, non corrispondendo al modello legale, non possa ritenersi efficace e, quindi, non sia idonea a legittimare lo svolgimento dell’attività privata, suscettibile di essere inibita senza i limiti temporali dettati dall’art. 19, commi 3 e 4, L. n. 241 del 1990, giustificati – come osservato – dall’inerzia serbata dall’organo procedente che, pur in condizione di provvedere, abbia omesso tempestivamente di svolgere le prescritte verifiche di competenza” (Consiglio di Stato sez. IV, 07/04/2021, n. 2799).
Quanto alla SCIA edilizia, dunque, “è necessario che sia veritiera la “dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”, richiesta dall’art. 23, co. 1 d.p.r. 380/01” (T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. II, 05/01/2022, n.19).
Manutenzione straordinaria e cambio di destinazione d’uso: l’ambito applicativo della CILA
Al fine della corretta individuazione del titolo edilizio necessario per il passaggio da una categoria funzionale all’altra, la pronuncia Consiglio di Stato sez. II, 24/04/2023, n. 4110 si è soffermata sull’individuazione dell’esatta accezione da attribuire al riferimento di “mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico” di cui all’art. 3, lett. b) del D.P.R. n. 380/2001 in relazione agli interventi edilizi di manutenzione straordinaria.
I giudici di Palazzo Spada, nell’accogliere il ricorso promosso da un Comune avverso una sentenza con cui il T.A.R. aveva dichiarato illegittima l’ordinanza comunale che aveva dichiarato inefficace la CILA riferita al cambio d’uso senza opere da commerciale ad artigianale e ordinato la rimessione in pristino, hanno spiegato che, anche successivamente alla riforma introdotta dal D.L. n. 76/2020, “le modifiche di destinazione d’uso possono conseguire agli interventi riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria sono solo quelle tra categorie urbanistiche omogenee, tale essendo l’inequivoco significato della dicitura “urbanisticamente rilevanti” e “non implicanti aumento del carico urbanistico” previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, anche nella sua attuale formulazione”.
Invero, esso va individuato avuto riguardo alle previsioni dell’art. 23-ter inserito nel D.P.R. n. 380/2001 col cd. decreto “Sblocca Italia” (D.L. n. 133/2014), che le ha introdotte al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti. Sicché, la disposizione che riduce a cinque le categorie previste “individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante”, appunto, il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”, appunto)”.
Ciò detto, da un punto di vista pratico è possibile affermare che le modifiche di destinazione che possono conseguire agli interventi riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria sono solo quelle tra categorie urbanistiche omogene senza opere; di qui, l’inadeguatezza della CILA a legittimare l’intervento in quanto “Va ricordato a tale riguardo come la c.d. comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) con il d.lgs. n. 222/2016 è divenuta il titolo general-residuale, necessario per tutti gli interventi edilizi per i quali le norme del testo unico non impongono la SCIA o il permesso di costruire ovvero che non rientrano ai sensi dell’art. 6 nell’attività edilizia libera. Con tale scelta si è radicalmente cambiata l’opzione normativa di cui al previgente comma 4 del richiamato art. 6 che, al contrario, lasciava aperta la categoria della SCIA e tipizzava in maniera specifica gli interventi sottoposti a CILA. A ciò è conseguito che sono ricondotte alla CILA opere quantitativamente rilevanti, quali – come è dato evincere da una lettura a contrario dell’art. 22 – gli interventi di manutenzione straordinaria leggera, appunto, ovvero quelli che, pur comportando cambi di destinazione d’uso urbanisticamente non rilevanti, non riguardano parti strutturali dell’edificio e non incidono sui prospetti”.
Ciò posto, il Consiglio di Stato si è soffermato sulle conseguenze dell’errato utilizzo della CILA ex art. 6-bis del D.P.R. n. 380/2001, richiamando il parere reso dalla Commissione speciale chiamata ad esprimersi sul testo provvisorio del d.lgs. n. 222/2016 (parere n. 1784/2016) secondo cui “In tali casi l’amministrazione non può che disporre degli ordinari poteri repressivi e sanzionatori dell’abuso, come peraltro implicitamente previsto dalla stessa disposizione, laddove fa salve “le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia […]”.
La differenza di regime tra la previsione di un potere meramente sanzionatorio (in caso di CILA) e quella di un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di controllo postumo in ‘autotutela’ rispetto alla SCIA si spiegherebbe, secondo il parere, “alla stregua dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le attività private non determinino un significativo impatto sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere chiamato di ‘semplificazione progressiva’”, il quale implica che “l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere ‘soltanto’ conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”.
Preso atto di questa impostazione, è stato evidenziato che, “proprio la mancata previsione di sistematicità dei controlli rischia di tradursi in un sostanziale pregiudizio per il privato, che non vedrebbe mai stabilizzarsi la legittimità del proprio progetto, di talché la presentazione della CILA, considerata anche la modesta entità della sanzione per la sua omissione, avrebbe in sostanza l’unico effetto di attirare l’attenzione dell’amministrazione sull’intervento, esponendolo ad libitum, in caso di errore sul contesto tecnico-normativo di riferimento, alle più gravi sanzioni per l’attività totalmente abusiva, che l’ordinamento correttamente esclude quando l’amministrazione abbia omesso di esercitare i dovuti controlli ordinari di legittimità sulla SCIA o sull’istanza di permesso”.
Per scongiurare i predetti rischi e, per offrire al privato una maggiore tutela, la sentenza, richiamando Consiglio di Stato sez. IV, 23/04/2021 n. 3275, ha inteso mutuare in subiecta materia i principi via via consolidatisi con riferimento alla separazione tra autotutela decisoria e esecutiva in materia di SCIA o DIA., in particolare dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 45/2019, secondo cui “la c.i.l.a. condivide con la s.c.i.a. l’intima natura giuridica, sicché trovano applicazione i limiti di tempo e di motivazione declinati nell’art. 19, commi 3, 4, 6-bis e 6-ter l. n. 241/1990, in combinato disposto con il richiamo alle “condizioni” di cui all’art. 21-nonies della medesima normativa[2]”.
Poteri e oneri di vigilanza del Comune sulla CILA
La recente pronuncia T.A.R. Calabria sez. II, 07/12/2023, n. 1602 permette di fare un ulteriore approfondimento riguardo agli orientamenti della giurisprudenza amministrativa circa le conseguenze dell’errato utilizzo della CILA. Invero, nel discostarsi dall’orientamento espresso dall’esaminata sentenza Consiglio di Stato sez. II, 24/04/2023, n. 4110, i giudici richiamano il diverso orientamento secondo cui, “considerata la specifica natura della citata comunicazione, anche laddove sia trascorso un rilevante lasso temporale dalla sua trasmissione al Comune, non è precluso all’amministrazione l’esercizio degli ordinari poteri repressivi e sanzionatori qualora ci si trovi al cospetto di interventi che, secondo la prospettazione della parte lesa, esulino dal regime della predetta comunicazione[3]”.
La pronuncia in commento prosegue evidenziando che, sebbene la non perfetta tecnica di redazione della legislazione lasci evidentemente spazio ad entrambe le opzioni ermeneutiche, a favore di quella per cui non vi sarebbe in capo all’amministrazione il sistematico potere di verifica e inibizione dell’intervento sottoposto a CILA, ma solo quello – successivo – di reprimere gli abusi, depongono le seguenti considerazioni: “In primo luogo, occorre riconnettere un significato alla scelta legislativa, nel 2016, di creare un nuovo regime di interventi edilizi, accanto a quelli – già noti – dell’attività edilizia libera, dell’attività soggetta SCIA, dell’attività realizzabile con SCIA in sostituzione del permesso di costruire e delle opere edìli soggette a permesso di costruire. L’assimilazione, quanto ai poteri esercitabili dall’amministrazione, della CILA alla SCIA scolorirebbe eccessivamente le diversità tra i due regimi, finendo per privare di sostanziale significato l’intervento legislativo.[…]In secondo luogo, la CILA contempla la presenza di un’asseverazione da parte di un tecnico abilitato, «il quale attesta, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché che sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell’edilizia e che non vi è interessamento delle parti strutturali dell’edificio» (art. 6-bis d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Tale asseverazione non è richiesta, invece, in caso di SCIA. Il maggiore onere posto in capo al privato nel contesto della CILA deve trovare una giustificazione, e al Tribunale pare che essa vada individuata proprio nel venir meno – in capo all’amministrazione – del potere/dovere sistematico di controllo delle comunicazioni, ferma restando la possibilità di interventi repressivi in caso di uso abusivo dell’istituto”.
In quest’ottica, anche la recente pronuncia T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. II, 23/12/2023, n. 3180 ha ribadito che “Giacché la CILA, di cui all’art. 6 bis d.p.r. 380/2001, è uno strumento di liberalizzazione dell’attività edilizia e, diversamente dalla SCIA, non è soggetta a controllo sistematico dell’amministrazione entro termini perentori, non può ritenersi che questa si consolidi ove non prontamente inibita, il comune potendo – e dovendo – ricorrere ai poteri di vigilanza e di repressione degli abusi, come del resto implicato nello stesso art. 6 bis d.p.r. 380/2001, laddove fa salve “le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia”.
[1] Consiglio di Stato sez. V, 08/03/2018, n. 2584.
[2] Sotto tale profilo, l’atto impugnato è stato giudicato esente da censure in quanto i passaggi procedurali intercorsi, se anche evidenziano sul piano formale comprensibili incertezze di inquadramento dogmatico, attestano su quello sostanziale la tempestività della reazione del Comune all’attività abusiva, tale da escludere qualsiasi necessità di tutela dell’affidamento.
[3] cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 28/04/2023, n. 4327; Cons. Stato, Sez. II, 13/10/2022, n. 8759; T.A.R. Lombardia Milano, Sez. II, 24/02/2022, n. 462; T.A.R. Campania – Napoli, Sez. IV, 06/04/ 2020, n. 1338.