FEBBRAIO 2023 – Condono edilizio Corte di Cassazione principi chiave

Condono edilizio la Corte di Cassazione riafferma i principi chiave

 

La Corte di Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 44457 del 23 novembre 2022, ha respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione aveva dichiarato inammissibile l’istanza proposta da due soggetti diretta ad ottenere la revoca dell’ordine di demolizione impartito nei loro confronti sul rilievo che la volumetria da sanare fosse stata surrettiziamente frazionata mediante la presentazione di distinte domande di condono.

Con la pronuncia de qua gli ermellini hanno fissato alcuni principi chiave relativi all’utilizzo delle disposizioni previste dagli articoli 31, comma 3, e 38 della legge n. 47/1985 (cd. primo condono edilizio) e dell’art. 39 della legge n. 724/1994 (cd. secondo condono edilizio).

In primo luogo si rammenta che, ai sensi del citato articolo 39, comma 1, prima parte della legge 724/1994, «le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993, e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi». La norma prosegue precisando che «le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria».

Pertanto, anche nell’ipotesi di nuova costruzione, non è ammissibile il condono edilizio di una costruzione quando la richiesta di sanatoria sia presenta frazionando l’unità immobiliare in plurimi interventi edilizi, in quanto è illecito l’espediente di denunciare fittiziamente la realizzazione di plurime opere non collegate tra loro quando, invece, le stesse risultano finalizzate alla realizzazione di un unico manufatto e sono a esso funzionali, sì da costituire una costruzione unica.

Sul tema del frazionamento delle istanze di condono edilizio la Cassazione si è espressa numerose volte rilevando che «in tema di condono edilizio disciplinato dalla legge 24 novembre 1994, n. 724, nel caso di unico immobile, rispetto al quale non sia stata effettuata alcuna divisione né siano stati costituiti diritti di proprietà o di godimento su singole porzioni, non sono legittimati a presentare distinte istanze di sanatoria coloro che abbiano la mera disponibilità di fatto di specifiche porzioni del bene, configurando ciò un artificioso frazionamento della domanda volto ad eludere il limite legale di volumetria dell’opera per la concedibilità della sanatoria».[1]

Sotto ulteriore profilo, la Corte non ha ritenuto fondato il rilievo secondo cui la demolizione avrebbe generato un contrasto tra l’ordinamento amministrativo nel cui ambito erano state rilasciate le sanatorie e l’ordinamento penale in quanto deve essere considerato pienamente legittimo il controllo del giudice penale sulla conformità delle opere alla normativa urbanistica e alle disposizioni rivenienti dalla pianificazione territoriale in quanto, «in tema di reati edilizi, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici».

Da ultimo, preme evidenziare che la sentenza in menzione si è soffermata ad analizzare la natura dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo disposta con la sentenza di condanna confermando che non può riconoscersi all’ordine di demolizione sanzione di natura penale poiché «in materia di reati edilizi, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, con effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l’autore dell’abuso, con la conseguenza che non può ricondursi alla nozione convenzionale di “pena” nel senso elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU».

Consegue, quindi, al riconoscimento della natura di sanzione amministrativa l’insuscettibilità di estinzione per decorso del tempo dell’ingiunzione demolitoria, costituendo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui «in materia di reati concernenti violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l’autore dell’abuso».[2]

Conclusione che non può ritenersi contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, ove si consideri che la Corte ha di recente affermato che «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa – che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso, configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l’autore dell’abuso – non consentono di ritenerla “pena” nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all’art. 117 Cost.».[3]

[1] così Sez. 4, n. 10017 del 15/03/2021, PG., Rv. 280700-01, nonché, nello stesso senso, Sez. 3, n. 27977 del 04/04/2019, Caputo, Rv. 276084-01, Sez. 3, n. 44596 del 20/05/2016, Boccia, Rv. 269280-01 e Sez. 3, n. 12353 del 02/10/2013, dep. 17/03/2014, Cantiello, Rv. 259292-01.

[2] così Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, P.M. in proc. Delorier, Rv. 265540-01, Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736-01, Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336-01 e Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670-01.

[3] così Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977-01.