Procedimento di variante semplificata e sindacabilità delle scelte urbanistiche
Con la sentenza n. 10354 del 24 novembre 2022, la IV sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata circa la sindacabilità delle scelte urbanistiche da parte del giudice amministrativo nel procedimento di variante semplificata di cui all’articolo 8 del D.P.R. n. 160/2010 (rubricato «Regolamento per la semplificazione e il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133»).
Al fine di comprendere il principio di diritto enunciato dal Consiglio di Stato si rende opportuno inquadrare brevemente la vicenda giudicata attinente un impianto produttivo per il quale il titolare, avendo un interesse a un ampliamento dell’attività, depositava istanza volta al rilascio del prescritto provvedimento unico facendo ricorso al procedimento di variante semplificata ex articolo 8 del D.P.R. n. 160/2010; ottenuti i pareri favorevoli della conferenza dei servizi e della Giunta comunale si vedeva opposto il diniego di variante semplificata dal Consiglio comunale che, dopo essere stato annullato dal TAR adito per difetto di motivazione, veniva successivamente reiterato.
L’istante, dopo aver adito nuovamente il giudice di primo grado ed essersi visto rigettare il ricorso, proponeva appello al Consiglio di Stato contestando l’adeguatezza della motivazione del nuovo diniego nonché l’elusione, da parte della sentenza impugnata, dell’obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi e l’erroneità del riferimento all’articolo 13, comma 1 della l. n. 241/1990 (il quale esclude l’applicazione delle norme sulla partecipazione per gli atti di pianificazione).
In via preliminare si rammenta che la variante semplificata è lo strumento con cui il legislatore ha introdotto una misura di semplificazione urbanistica per agevolare l’inserimento di strutture produttive nel territorio comunale la cui disciplina ha carattere eccezionale e derogatorio e non può essere trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale.
Nel disciplinare detto procedimento, il citato articolo 8 dispone che «nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all’insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l’applicazione della relativa disciplina regionale, l’interessato può richiedere al responsabile del SUAP la convocazione della conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, e alle altre normative di settore, in seduta pubblica».
Tale norma prosegue prevedendo che «qualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l’assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile. Gli interventi relativi al progetto, approvato secondo le modalità previste dal presente comma, sono avviati e conclusi dal richiedente secondo le modalità previste all’articolo 15 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380».
E’ importante rilevare che, ai sensi del comma 2, «è’ facoltà degli interessati chiedere tramite il SUAP all’ufficio comunale competente per materia di pronunciarsi entro trenta giorni sulla conformità, allo stato degli atti, dei progetti preliminari dai medesimi sottoposti al suo parere con i vigenti strumenti di pianificazione paesaggistica, territoriale e urbanistica, senza che ciò pregiudichi la definizione dell’eventuale successivo procedimento; in caso di pronuncia favorevole il responsabile del SUAP dispone per il seguito immediato del procedimento con riduzione della metà dei termini previsti».
Il comma 3 aggiunge che «sono escluse dall’applicazione del presente articolo le procedure afferenti alle strutture di vendita di cui agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, o alle relative norme regionali di settore».
Orbene, i presupposti fondamentali per effettuare tale variante semplificata devono essere preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso: sia l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi, sia l’insufficienza di queste deve essere opportunamente verificata, laddove il concetto il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato «in relazione al progetto presentato».[1]
I giudici di Palazzo Spada – chiamati dunque a verificare la solidità dell’apparato motivazionale sulla scorta del quale il Consiglio comunale si era espresso in termini negativi in ordine alla richiesta di variante derogatoria – hanno ribadito in primo luogo che le scelte urbanistiche del Comune sono rimesse esclusivamente all’amministrazione che le adotta in base ad una ratio che, entro determinati limiti, è pur sempre sindacabile in sede giurisdizionale.
Infatti, se, per un verso, è corretta l’affermazione, fatta propria dalla giurisprudenza, secondo cui in generale le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale e censurabili unicamente per i profili di abnormità, illogicità e travisamento dei fatti.[2] Per altro verso tale regula iuris è destinata a trovare immediata e compiuta attuazione in presenza di determinazioni in tema di pianificazione che investono rilevanti parti del territorio comunale, come ad esempio le varianti ordinarie, che sono dirette ad avere effetti innovativi sul governo del territorio, quanto ai fini, alle destinazioni e dimensionamento degli standard, per cui riesce arduo negare all’ente locale un incisivo potere discrezionale, suscettibile di essere censurato, in virtù delle prerogative proprie delle scelte operate, solo entro ristretti ambiti di profili di illegittimità.[3]
Ciò posto, viene evidenziato che «la verifica della legittimità delle scelte urbanistiche da effettuarsi secondo il criterio della sussumibilità delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere si atteggia però diversamente in relazione all’ipotesi, quale è quella in esame, di una variante semplificata avente ad oggetto la localizzazione di un’opera su una porzione specifica e limitata del territorio che, per la natura ed entità della variazione proposta, non implica scelte di politica urbanistica di carattere generale stricto sensu, sì che le determinazioni da assumersi da parte dell’Amministrazione, nella comparazione degli interessi coinvolti, ben è assoggettabile a un più ampio e stringente sindacato giurisdizionale, in relazione, s’intende, ai profili di invalidità appositamente denunciati dagli interessati, senza che si possa in ciò configurare una non consentita funzione sostitutiva del giudice amministrativo a danno delle funzioni e delle prerogative all’Autorità istituzionalmente preposta alla gestione della relativa procedura».
Sulla scorta di tali considerazioni, ad avviso dei giudici, le ragioni addotte dall’organo comunale a giustificazione del diniego si rivelano non idonee a supportare validamente le conclusioni prese dall’amministrazione comunale che ha deciso di non accogliere la variante derogatoria con determinazioni che manifestano l’assenza dei necessari elementi di logicità e congruità rispetto ai dati documentali e alle risultanze procedimentali emerse nelle fasi procedurali espletate prima che il progettato intervento fosse sottoposto al vaglio del Consiglio comunale.
Da ultimo, il Consiglio di Stato ha accolto la censura afferente la violazione dell’art. 13 della legge n. 241/1990 richiamando il principio generale affermato dalla giurisprudenza secondo cui tale norma non si applica alle varianti localizzative, che sono in realtà provvedimenti puntuali.
[1] cfr. Consiglio di Stato IV 8 gennaio 2016, n. 27; Consiglio di Stato, 15 luglio 2011, n. 4308.