Gli interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato
L’articolo 38 del D.P.R. n. 380/2001 reca la disciplina concernente gli «Interventi eseguiti in base a permesso annullato» stabilendo che «in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa».
Il comma secondo sancisce che l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36, mentre il comma 2-bis estende l’applicabilità delle disposizioni de quibus anche agli interventi edilizi subordinati a S.C.I.A. alternativa al permesso di costruire «di cui all’articolo 23, comma 01, in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo».
Con riguardo ai presupposti che danno luogo alla possibilità di accedere alla cd. «fiscalizzazione» di cui alla norma in commento, preme rammentare il recente intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – la n. 17 del 2020 – che ha chiarito l’ambito di applicazione dell’articolo 38.
Mediante tale pronunciamento si è in primis rilevato che, sulla scorta di quanto sancito dal comma secondo, «il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria» e che tale «equiparazione è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi».
Si è dato quindi atto che «la composizione degli opposti interessi in rilievo – tutela del legittimo affidamento da una parte, tutela del corretto assetto urbanistico ed edilizio dall’altra – è realizzato dal legislatore per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite” (cd fiscalizzazione dell’abuso)».
Si è così evidenziato che «proprio perché costituente eccezionale deroga al principio di necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, la disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino».
Orbene, proprio il primo di tali aspetti è stato attenzionato dalla decisione de qua, con cui l’Adunanza Plenaria – discostandosi dal nutrito filone giurisprudenziale a mente del quale «la fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio (procedurale o sostanziale) avendo il legislatore affidato l’eccezionale percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato» – ha affermato che «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
Sulla scorta di tale pronunciamento il Consiglio di Stato, nella più recente sentenza n. 136 del 2023, in una fattispecie in cui veniva in rilievo l’applicazione dell’articolo 38 ha dapprima ricordato che «la norma disciplina l’ipotesi in cui le opere siano state realizzare in presenza di un titolo edilizio successivamente annullato dall’amministrazione o in sede giurisdizionale, e prevede la possibilità di evitare la demolizione dell’immobile irrogando una sanzione pecuniaria (c.d. fiscalizzazione dell’abuso) in due distinti casi: qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative e qualora non risulti possibile la restituzione in pristino» e, nel decidere la questione all’esame, ha dunque precisato che:
- «il primo di tali requisiti (l’impossibilità di rimuovere i vizi delle procedure amministrative) è stato oggetto di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria, che ha chiarito che: “I vizi cui fa riferimento l’art. 38, t.u. edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione” (Consiglio di Stato ad. plen., 07/09/2020, n. 17). La norma, dunque, intende fare riferimento all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato annullato per vizi formali o procedurali non emendabili ai sensi dell’art. 21 nonies co. 2 l. 241/90; in tal caso, stante la sostanziale legittimità dell’opera, l’amministrazione deve procedere alla fiscalizzazione dell’abuso evitando la demolizione. La tutela dell’affidamento del privato circa la legittimità del titolo edilizio, pertanto, costituisce un limite rispetto al potere di riduzione in pristino dell’amministrazione solo nel caso in cui l’opera non presenti profili di abusività dal punto di vista sostanziale: “La tutela dell’affidamento attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può infatti giungere sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito. “ (Consiglio di Stato ad. plen., 07/09/2020, n. 17)»;
«qualora il permesso di costruire sia stato annullato per vizi sostanziali, la fiscalizzazione dell’abuso è consentita solo nel caso in cui la restituzione in pristino risulti impossibile. Relativamente all’individuazione delle ipotesi che rendono impossibile la riduzione in pristino, la giurisprudenza ha chiarito che “Nell’ambito delle conseguenze agli illeciti edilizi, deve rilevarsi come l’impossibilità di riduzione in pristino non possa che essere di ordine squisitamente tecnico costruttivo; diversamente opinando, l’art. 38 d.P.R. 380/2001 si presterebbe a letture strumentali, consentendo sanatorie ‘ex officio’ di abusi attraverso lo strumento dell’annullamento in autotutela del titolo edilizio originario.” (Consiglio di Stato sez. IV, 19/04/2022, n. 2919). La riduzione in pristino, pertanto, deve risultare impraticabile alla luce di una valutazione tecnica e non di una ponderazione dei vari interessi in gioco, fra cui l’affidamento del privato nella legittimità delle opere».
Il permesso di costruire è annullabile se manca il piano attuativo?
Il Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza n. 534 del 16 gennaio 2024, si è pronunciato in relazione ad una fattispecie afferente all’annullamento in autotutela di alcuni permessi di costruire: tale annullamento era stato disposto – in estrema sintesi – poiché l’area di intervento ricadeva in una zona urbanistica per la quale la normativa comunale subordinava il rilascio del titolo abilitativo alla previa approvazione di piani attuativi di lottizzazione ed in considerazione, altresì, del fatto che nell’area in discorso non erano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ritenendosi pertanto impossibile prescindere dalla definizione del piano urbanistico attuativo.
Come rilevato preliminarmente dalla pronuncia de qua, il giudice di primo grado aveva rigettato i vari ricorsi promossi avverso tale annullamento «sulla base della argomentazione per cui, in presenza di una normativa urbanistica generale, che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona, l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5471) nonché sulla base di una serie di argomentazioni relative alla carenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria nella zona interessata».
Orbene, in sede di appello, sulla ritenuta legittimità della decisione di autotutela, con particolare riguardo all’assunta imprescindibilità della pianificazione attuativa, il Consiglio di Stato ha ricordato che «il Piano attuativo, come emerge da giurisprudenza univoca, ha carattere di tendenziale stabilità, in quanto specifica le modifiche del territorio, in una prospettiva in cui si definisce nel dettaglio la pianificazione determinando l’assetto definitivo del territorio; ciò lo differenzia dal Piano regolatore che ha una prospettiva più di massima, circa l’utilizzazione dei suoli relativamente a quello che è consentito e a quello che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio (cfr.Consiglio di Stato, sez. II, 13 giugno 2019, n. 3977)», osservando che «in materia edilizia costituisce ius receptum l’eccezionalità dei casi in cui il piano regolatore generale consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo», difatti «pure in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, caratterizzata da una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (cfr.Consiglio di Stato, sez. IV, 11 novembre 2022, n. 9916)».
Il Consiglio di Stato ha ribadito che «in linea generale, quindi, l’intervenuta edificazione come causa di esenzione dell’esigenza del piano attuativo è eccezionale in quanto invertirebbe l’ordine logico della pianificazione che si pone come preventiva alla realizzazione degli immobili; ossia non è ipotizzabile, in quanto contrario al buon andamento, che mediante l’edificazione di fatto – e quindi mediante la realizzazione di edifici poi condonati o sulla base di un titolo illegittimamente rilasciato – venga invertito l’ordine logico previsto dalle disposizioni locali in materia urbanistica. Si tratta, in ogni caso, di un intervento su una urbanizzazione preesistente che è frutto a sua volta di interventi non coordinati in quanto conseguenti a rilascio di concessioni edilizie in assenza di piani attuativi», atteso che «diversamente opinando si rischierebbe un circuito “vizioso” che consentirebbe – sulla scorta di realizzazioni originariamente illegittime – di pervenire “a regime” a superare la pianificazione territoriale e quindi un sistema di regolare svolgimento dell’attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 6268 del 27 giugno 2023).
La pianificazione attuativa è quindi indefettibile essendo prevista da una disposizione locale che compete al Comune eventualmente modificare, in ossequio ai principi di buon andamento, ma non disapplicare a seguito di un inidoneo esercizio delle funzioni in materia urbanistica.
È il Comune che, attesa la previsione del piano attuativo, deve riappropriarsi della pianificazione al fine di svolgere le primarie funzioni che gli competono quale ente vigilante sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio (cfr. art. 27 d.P.R. 380/2001); ed anzi la redazione del piano attuativo, anche in situazioni già di fatto urbanizzate, può rappresentare una utile occasione per ridare efficienza alla zona oggetto di misure di condono».
In questa ottica, per completezza, si è dato conto della tesi che ritiene che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l’area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in sé e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia, replicando che «è comunque l’Amministrazione […] a dover condurre una adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 3 dicembre 2019, n. 8270); e detta valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione – che spetta unicamente al Comune – è caratterizzata da un amplissimo margine di discrezionalità al punto che non può essere sottoposta al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, salvo che sotto il profilo della palese illogicità ed irragionevolezza delle determinazioni assunte o per essere le determinazioni stesse inficiate da errori di fatto (cfr.Consiglio di Stato, sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2545)».
Nello specifico, la redazione del piano attuativo risultava necessaria anche per raccordare le aree già urbanizzate con quanto da realizzare, senza continuare in un’edificazione disomogenea che prescindesse dalle norme urbanistiche: da qui la legittimità dell’annullamento in autotutela in quanto – tra l’altro – i titoli edilizi erano stati adottati in contrasto con le N.T.A. che richiedevano, ai fini del rilascio, l’adozione di un piano attuativo.
Il Consiglio di Stato ha spiegato, infine, che la verifica sulla situazione di fatto ai fini dell’adozione del provvedimento di autotutela è stata fatta tenendo conto della situazione in essere, e non sulla scorta della sola carenza del piano attuativo, in linea con quella giurisprudenza in base alla quale l’interesse pubblico specifico alla rimozione dell’atto illegittimo dev’essere integrato da ragioni differenti dalla mera esigenza di ripristino della legalità[1].
[1] https://www.lavoripubblici.it/news/permesso-costruire-annullabile-se-manca-piano-attuativo-32522