Interventi edilizi in centro storico: le regole per il rifacimento del tetto
Dopo aver analizzato l’ambito applicativo posto dal T.U. Edilizia in riferimento agli interventi di manutenzione straordinaria e ristrutturazione edilizia appare interessante richiamare la pronuncia Consiglio di Stato sez. VII, 18/08/2023 n. 7806 in merito all’intervento di rifacimento del tetto eseguito all’interno di un centro storico.
Sul punto, occorre premettere che il D.M. n. 1444/1968 contempla i centri storici tra le zone “A” (cioè le parti del territorio interessante da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di esso) dettando una disciplina limitativa su densità edilizia, altezze e distanze e rimandando la definizione degli interventi edilizi consentiti, sia a livello urbanistico che architettonico, ai piani regolatori e ai piani attuativi corrispettivi dei singoli Comuni.
In tale prospettazione, nel caso sottoposto al giudizio di Palazzo Spada, il piano di recupero comunale del Centro Storico riconosceva la possibilità di eseguire interventi di ristrutturazione edilizia con aumenti della superficie utile interna al perimetro murario preesistente e del numero di piani, ma senza modifica delle pendenze medie delle coperture e dell’altezza massima di ciascun fronte. Sulla scorta di ciò, i giudici hanno ritenuto in contrasto con la normativa urbanistica la demolizione della precedente falda di copertura e ricostruzione della stessa con travi in legno e tavolato in legno, con modifica delle quote in altezza (ovvero portando la parte della gronda da circa cm. 20 la minima e circa cm. 220 la massima, a quote modificate con cm. 197 la minima e 257 la massima) che ne hanno determinato un netto innalzamento rispetto alla quota che essa originariamente aveva in quel punto arretrato (l’altezza del tetto degradante era molto più bassa in quanto prossima alla fine della pendenza, che arrivava a quota 20 cm nella preesistente linea di gronda), con la realizzazione di due ampie finestre sul fronte che così si è creato ex novo, lì dove c’era solo il tetto.
Sempre in tema di interventi edilizi in centro storico la recente sentenza T.A.R. Lazio (Roma) sez. II, 09/01/2024, n. 423 ha giudicato illegittimo l’intervento volto alla realizzazione di una terrazza totalmente scoperta anziché incastonata nel tetto a falde in quanto “implica con evidenza la violazione delle norme del p.r.g., tanto per l’obbligo di mantenere inalterate le architetture, per gli edifici aventi carattere storico, tanto quanto all’obbligo di non turbare o compromettere le architetture caratteristiche dell’ambiente, per gli edifici non aventi carattere storico”. In tale pronuncia, il T.A.R. non si è limitato ad accertare l’inerzia del Comune nel riscontrare l’istanza della vicina volta a sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori da parte dell’ente, ma si è spinto ad ordinare al Comune l’esercizio dei dovuti provvedimenti stante l’assenza di discrezionalità in capo al Comune a causa della patente violazione delle norme urbanistiche.
Interventi edilizi in condominio: condizioni e limiti
In tema di interventi edilizi eseguiti all’interno di un appartamento in condominio occorre richiamare la disciplina civilista posta all’art. 1122 c.c., rubricato “Opere su parti di proprietà o uso individuale”, la quale vieta di compiere, nel piano o nelle porzioni di piano di proprietà esclusiva, opere che possano danneggiare le parti comuni o il decoro architettonico dell’edificio e le sue condizioni di sicurezza.
Sul punto, il costante orientamento della giurisprudenza si è espresso nel senso che “Costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio”. Difatti, “Ai fini della tutela del decoro architettonico dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale fisionomia sia stata già compromessa da precedenti interventi sull’immobile. Nel valutare l’impatto di un’opera modificativa sul decoro architettonico è da adottare un criterio di reciproco temperamento tra i rilievi attribuiti all’unitarietà di linee e di stile originaria, alle menomazioni apportate da precedenti modifiche e all’alterazione prodotta dall’opera modificativa sottoposta a giudizio, senza che possa conferirsi rilevanza da sola decisiva, al fine di escludere un’attuale lesione del decoro architettonico, al degrado estetico prodotto da precedenti alterazioni” (Cassazione civile sez. II, 02/08/2023, n.23510).
L’inclusione del pregiudizio di ordine estetico discende dal principio più generale per cui la nozione di “danno” rilevante per l’applicabilità dell’articolo in commento si riferisce non soltanto a quello materiale – che incide cioè fisicamente sulla cosa comune – ma anche a quello funzionale, che invece colpisce, menomandole, le utilità che possono ricavarsi dai beni comuni. Così qualificato, il decoro è un bene che interessa tutti i condomini ed è suscettibile di valutazione economica – ognuno di essi può ottenere in via di adempimento coattivo l’obbligo di fare ex art. 2933 c.c. avente ad oggetto la demolizione delle opere lesive illegittimamente eseguite.
Altra ipotesi ricondotta – per identità di ratio – alla fattispecie definita dall’art. 1122 c.c. è stata individuata dalla giurisprudenza nell’art. 1127 c.c. che riconosce al proprietario dell’ultimo piano (ovvero al proprietario esclusivo del lastrico solare) il diritto di elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. Il legislatore ha previsto ai successivi commi 2 e 3 un limite all’esistenza stessa di tale diritto ove le condizioni statiche dell’edificio non lo consentono, riconoscendo altresì ai condomini la facoltà di opporsi alla sopraelevazione laddove quest’ultima pregiudichi l’aspetto architettonico dell’edificio o ne diminuisca notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti.
A riguardo, la pronuncia Cassazione civile sez. II, 11/05/2023 n. 12795 richiama la sua consolidata giurisprudenza secondo cui “la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppure indipendentemente dall’altezza del fabbricato”. Inoltre, in merito alla nozione di “decoro architettonico” è stato ribadito come la stessa possa essere pattiziamente rafforzata nel regolamento condominiale, sicché “la sopraelevazione non è ammessa non solo se le condizioni statiche dell’edificio non la permettono, ma anche se risulti lesiva dell’aspetto architettonico dell’edificio, così come risulti eventualmente definito nel regolamento di condominio, ovvero risulti necessaria l’autorizzazione dei condomini”.
Quanto alla possibilità per il condomino proprietario del piano sottostante al tetto comune di aprire delle finestre per dare aria e luce alla sua proprietà, la giurisprudenza si è espressa nel senso che “l’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luci in vedute su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai singoli condomini. Difatti, nell’àmbito delle facoltà riconosciute ai condomini ex art. 1102 c.c., rientra quella di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza che ciò violi gli artt. 901–907 c.c., posto che tali modalità d’uso non ostacolino il godimento da parte degli altri compartecipi, né pregiudichino gli altri immobili” (Cassazione civile sez. II, 19/07/2018, n.19265).
In tale prospettazione, l’apertura di finestre su un cortile condominiale – sempre che non alteri il decoro architettonico dell’edificio – costituisce opere legittima ed inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio nemini res sua servit, sia per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incorrere nelle limitazioni prescritte in tema di luci e vedute a tutela dei proprietari di fondi confinanti di proprietà esclusiva.
Parimenti, le norme sulle distanze legali, fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il singolo condomino di un edificio nel caso in cui esse siano compatibili con l’applicazione delle disposizioni particolari relative all’uso delle cose comuni (art. 1102 c.c.). Ne consegue che, “qualora il giudice verifichi che l’uso della cosa comune sia avvenuto nell’esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c. a tutela degli altri comproprietari, deve ritenersi legittima l’opera realizzata senza il rispetto delle norme sulle distanze tra proprietà contigue, applicabili, di regola, anche in ambito condominiale, purché la relativa osservanza sia compatibile con la particolare struttura dell’edificio condominiale[1]” (Cassazione civile sez. II, 19/04/2023, n.10477).
Titoli edilizi e pianificazione attuativa: i limiti all’attività edilizia in assenza di strumenti urbanistici di attuazione
La recente sentenza Consiglio di Stato sez. IV, 16/01/2024, n.534 analizza la tematica relativa al rapporto tra pianificazione attuativa e la possibilità di realizzare interventi diretti, senza la preventiva approvazione del piano urbanistico attuativo.
Da un punto di vista definitorio, come evidenziato anche dalla pronuncia de qua, il piano attuativo ha carattere di tendenziale stabilità in quanto specifica le modifiche del territorio in una prospettiva in cui si definisce nel dettaglio la pianificazione; ciò lo differenzia dal piano regolatore che ha una prospettiva più di massima circa l’utilizzazione dei suoli relativamente a quello che è consentito e a quello che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio. Di conseguenza, già nel sistema delineato dalla legge urbanistica n. 1150/1942 la pianificazione di cui si discorre fungeva da condizione necessaria e indisponibile per il rilascio dei titoli abilitativi.
In quest’ottica, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che “In materia edilizia costituisce ius receptum l’eccezionalità dei casi in cui il piano regolatore generale consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo; pure in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, caratterizzata da una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona”.
In linea generale, quindi, l’intervenuta edificazione come causa di esenzione dell’esigenza del piano attuativo è eccezionale in quanto invertirebbe l’ordine logico della pianificazione che si pone come preventiva alla realizzazione degli immobili; ossia non è ipotizzabile, in quanto contrario al buon andamento, che mediante l’edificazione di fatto – e quindi mediante la realizzazione di edifici poi condonati o sulla base di un titolo illegittimamente rilasciato – venga invertito l’ordine logico previsto dalle disposizioni locali in materia urbanistica. Diversamente opinando si rischierebbe un circuito “vizioso” che consentirebbe – sulla scorta di realizzazioni originariamente illegittime – di pervenire “a regime” a superare la pianificazione territoriale e quindi un sistema di regolare svolgimento dell’attività edilizia[2]. È il Comune che, attesa la previsione del piano attuativo, deve riappropriarsi della pianificazione al fine di svolgere le primarie funzioni che gli competono quale ente vigilante sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio (cfr. art. 27 del D.P.R. n. 380/2001).
Per completezza, va comunque dato conto della tesi secondo cui quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l’area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in sé e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia. Sul punto, la pronuncia in commento ha rilevato come “è comunque l’Amministrazione, infatti, a dover condurre un’adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr. Consiglio di Stato sez. II, 03/12/ 2019, n. 8270); e detta valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione – che spetta unicamente al Comune – è caratterizzata da un amplissimo margine di discrezionalità al punto che non può essere sottoposta al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, salvo che sotto il profilo della palese illogicità ed irragionevolezza delle determinazioni assunte o per essere le determinazioni stesse inficiate da errori di fatto (cfr. Consiglio di Stato sez. IV,04/05/2010, n. 2545)”.
[1] Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di appello che, ritenendo applicabili le norme sulle distanze ex art. 907 c.c. a discapito dell’art. 1102 c.c., aveva ordinato la rimozione di una passerella appoggiata al muro perimetrale comune, costituente un nuovo accesso all’appartamento di un condomino, senza verificare l’esistenza di un concreto pregiudizio all’appartamento sottostante.
[2] cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 27/06/2023, n. 6268.