Lo stato legittimo degli immobili ante 1967: gli elementi probanti
L’articolo 9-bis («Documentazione amministrativa e stato legittimo degli immobili») del D.P.R. n. 380/2001 al comma 1-bis – introdotto dal cd. «Decreto Semplificazioni» del 2020[1] – dispone che «lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali».
Il secondo periodo della norma stabilisce che «per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali».
Si prevede, infine, che «le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia».
Orbene, appare interessante soffermarsi sulla previsione riguardante gli immobili realizzati «in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio» svolgendo alcune brevi considerazioni.
Occorre rammentare, invero, che nel nostro ordinamento l’obbligo di licenza edilizia è stato introdotto dalla L. n. 1150/1942 (cd. «Legge Urbanistica»), la quale ha istituito il predetto atto al fine di disciplinare l’edificazione nei centri abitati: in particolare, in base al disposto dell’articolo 31, era previsto che chiunque intendesse «eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell’art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune»; successivamente, con l’integrazione di cui alla L. n. 765/1967 (cd. «Legge Ponte»), è stata estesa l’operatività di tale obbligo nell’ambito dell’intero territorio comunale.
Nel periodo intercorrente tra il 1942 ed il 1967, pertanto, al di fuori dei centri abitati e dove non esisteva il piano regolatore generale vigeva la medesima libertà di edificare che il legislatore riconosceva indistintamente prima dell’entrata in vigore cd. «Legge Urbanistica» del 1942, mentre a partire dal 1967 si rileva un generalizzato obbligo di munirsi preventivamente del titolo edilizio.
Nonostante un quadro normativo così definito, deve darsi atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale i regolamenti comunali potevano prevedere un obbligo di licenza edilizia o titolo autorizzativo comunque denominato anche prima del 1942 (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1254/2021)[2].
Tale orientamento sembra essere suffragato dalla sentenza n. 217 del 2022 resa dalla Corte Costituzionale, la quale ha evidenziato che «[…] prima della legge n. 765 del 1967, entrata in vigore proprio il 1° settembre 1967, l’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 imponeva in via generale la licenza di costruzione solo nei centri abitati e, per i comuni dotati di un piano regolatore generale, nelle zone di espansione esterne a essi.
Sennonché, pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti.
Anzitutto, per gli immobili realizzati in comuni ricadenti in zone sismiche, l’obbligo era sancito a livello di fonte primaria dal regio decreto-legge 25 marzo 1935, n. 640 (Nuovo testo delle norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti) e dal regio decreto-legge 22 novembre 1937, n. 2105 (Norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti) […].
Inoltre, l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo: regio decreto 10 febbraio 1889, n. 5921 (Che approva il testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 21 maggio 1908, n. 269 (Che approva l’annesso testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148 (È approvato l’annesso nuovo testo unico della legge comunale e provinciale)», desumendosene, pertanto, che prima della data di entrata in vigore della cd. «Legge Ponte» (1° settembre 1967) – nonché, a ben vedere, prima del 1942 – «vi erano comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici, sia sulla base di fonti non primarie, che però attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare».
La Corte ha conseguentemente ritenuto che «l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove si riferisce alla obbligatorietà del titolo, abbraccia certamente anche le citate fonti», evidenziando il contrasto della disposizione oggetto del sindacato di legittimità costituzionale, introdotta da una legge regionale veneta, «là dove, con riferimento a fattispecie per le quali la norma statale richiede il titolo abilitativo edilizio, affida la dimostrazione dello stato legittimo dell’immobile al ben diverso documento costituito dal certificato di abitabilità o di agibilità», atteso che «altro è consentire – come fa l’art. 9-bis, comma 1-bis, secondo periodo, t.u. edilizia – l’attestazione semplificata dello stato legittimo per gli immobili realizzati in epoche in cui il titolo non era obbligatorio, altro è negare l’efficacia di titoli abilitativi legittimamente rilasciati».
Con riguardo allo stato legittimo degli immobili preme ricordare brevemente come il richiamato «Decreto Semplificazioni» del 2020 abbia previsto l’introduzione del nuovo articolo 34-bis[3] («Tolleranze costruttive»), norma che al primo comma – riproducendo sostanzialmente l’ipotesi di tolleranza già presente nel previgente comma 2-ter dell’articolo 34 – dispone che «il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo», mentre al secondo comma prescrive che «fuori dai casi di cui al comma 1, limitatamente agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, costituiscono inoltre tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile».
La previsione in parola ha inteso salvaguardare l’interesse pubblico a garantire la celere circolazione dei beni ed a consentire il recupero e la rigenerazione edilizia di immobili che presentino unicamente trascurabili difformità – formali e non sostanziali – rispetto agli elaborati progettuali autorizzati, atteso che dette discordanze «formali», laddove in precedenza non qualificate dalla legge come irrilevanti, erano suscettibili di ostacolare le dichiarazioni di legittimità degli immobili in sede di stipula di atti di trasferimento dei beni, costituendo altresì causa di contenzioso in sede di verifica dello stato legittimo ai fini della presentazione di nuovi titoli edilizi[4].
Il terzo comma dell’articolo 34-bis stabilisce, infine, che «le tolleranze esecutive di cui ai commi 1 e 2 realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali».
In ordine all’applicabilità della tolleranza di cui al primo comma della disposizione de qua si segnala, peraltro, una decisione del T.A.R. lombardo con cui si è precisato che «la prova del rispetto del citato limite del 2% deve essere fornita dal costruttore o dal proprietario dell’immobile, come si desume dallo stesso comma 3 dell’art. 34-bis […] il che appare comprensibile, giacché solo chi realizza l’opera può chiaramente indicare se gli scostamenti dei parametri edilizi rispetto al titolo abilitativo rispettano la tolleranza prevista dalla legge» (T.A.R. Milano (Lombardia), sez. II, n. 1565/2022).
Il rapporto tra agibilità, stato legittimo e compravendita immobiliare
L’articolo 24 del D.P.R. n. 380/2001 reca la disciplina concernente l’«Agibilità» prevedendo, in particolare, al primo comma che «la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell’opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata».
Al comma successivo si prescrive che «ai fini dell’agibilità, entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento, il soggetto titolare del permesso di costruire, o il soggetto che ha presentato la segnalazione certificata di inizio di attività, o i loro successori o aventi causa, presenta allo sportello unico per l’edilizia la segnalazione certificata, per i seguenti interventi:
- a) nuove costruzioni;
- b) ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o parziali;
- c) interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di cui al comma 1».
Il comma terzo stabilisce una sanzione amministrativa pecuniaria in caso di mancata presentazione della segnalazione nelle ipotesi di cui sopra, mentre il comma quarto detta le condizioni per poter presentare la segnalazione per l’agibilità cd. parziale, ovvero per «singoli edifici o singole porzioni della costruzione» (lettera a) o «singole unità immobiliari» (lettera b).
Il quinto comma della norma indica la documentazione da cui deve essere corredata la segnalazione certificata per l’agibilità ed il comma sesto dispone che l’utilizzo delle costruzioni interessate «può essere iniziato dalla data di presentazione allo sportello unico della segnalazione corredata della documentazione di cui al comma 5», sancendo inoltre l’applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, della L. n. 241/1990 in materia di S.C.I.A.. Il comma 7 affida a Regioni, Province autonome, Comuni e Città metropolitane nell’ambito delle proprie competenze l’effettuazione dei controlli, «anche a campione e comprensivi dell’ispezione delle opere realizzate».
Il cd. «Decreto Semplificazioni» del 2020[5] ha introdotto il comma 7-bis, prevedendo la possibilità di presentare la segnalazione certificata «in assenza di lavori, per gli immobili legittimamente realizzati privi di agibilità che presentano i requisiti definiti con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro della salute, con il Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo e con il Ministro per la pubblica amministrazione, da adottarsi, previa intesa in Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione».
In tema appare interessante evidenziare alcuni estratti di una recente sentenza resa dalla Corte di Cassazione, con cui si è ricordato che «[…] in linea di principio, il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l’obbligo di consegnare all’acquirente il certificato di abitabilità.
La violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l’eccezione di inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, avesse già presentato una domanda di condono per sanare l’irregolarità amministrativa dell’immobile […] in presenza di tali evenienze può essere altresì esercitato il recesso ex art. 1385 c.c..
Nondimeno, i predetti rilievi valgono alla condizione che non siano integrati i requisiti atti ad ottenere il certificato di abitabilità (ossia in quanto ricorra una carenza sostanziale e non formale), tanto da impedire il rilascio del relativo documento».
La Corte ha avuto cura di delineare «le direttrici, normative e giurisprudenziali, intorno alle quali si sviluppa l’istituto del certificato di agibilità», rammentando che «sul piano normativo, la disposizione introduttiva dell’istituto era rappresentata del R.D. n. 1265 del 1934, art. 221 (T.U. delle leggi sanitarie), il quale stabiliva che, in materia di costruzione, ricostruzione, sopraelevazione e modificazione di case urbane o rurali o parti di esse contemplate dal precedente art. 220, tali edifici non potessero “essere abitati senza autorizzazione del sindaco, il quale la concede quando, previa ispezione dell’ufficiale sanitario e di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
La disciplina è stata ripetutamente rivisitata, con particolare riguardo al procedimento di rilascio del certificato, al fine di rendere le operazioni più agili e di favorire la certezza dello status giuridico dell’edificio.
Segnatamente, con il D.L. n. 328 del 1993, art. 4, comma 10, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 493 del 1993, si è proceduto a sostituire i controlli da effettuarsi ai fini del rilascio del certificato di abitabilità, in caso di inadempienza degli uffici comunali, con una dichiarazione resa da un professionista abilitato.
Per converso, del D.P.R. n. 425 del 1994, artt. 4 e 5, hanno complessivamente riordinato la materia attraverso l’abrogazione esplicita del R.D. n. 1265 del 1934, art. 221, comma 1, e la contestuale introduzione di un regime sensibilmente difforme dal precedente.
In specie, il D.P.R. n. 425 del 1994, art. 4, ha posto, in capo al proprietario dell’immobile della cui abitabilità si intende fare richiesta, l’onere di inoltrare la relativa domanda, allegando una serie di certificati attestanti i requisiti di salubrità, igiene e conformità del bene al progetto.
La medesima norma ha previsto altresì, alternativamente, il rilascio del certificato di abitabilità da parte del sindaco entro 30 giorni dalla richiesta, oppure un rapido procedimento di silenzio-assenso, che si snoda in due fasi, tali per cui l’abitabilità si ha per attestata, in via provvisoria, 45 giorni dopo la presentazione della domanda e, in via definitiva, una volta che siano trascorsi ulteriori 180 giorni, in assenza di ispezione comunale avente esito negativo.
Successivamente il certificato di abitabilità è stato disciplinato del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 24-26, entrato in vigore il 30 giugno 2003, che ha sostituito la vecchia dizione di “certificato di abitabilità” con quella di “certificato di agibilità”.
In ordine a detta regolamentazione, è stabilito che il soggetto titolare del permesso di costruire o il soggetto che ha presentato la denuncia di inizio attività, o i loro successori o aventi causa, sono tenuti a chiedere il rilascio del certificato di agibilità in tutti i casi di interventi edilizi relativi a nuove costruzioni, ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o parziali, nonché di interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di cui al comma 1 del medesimo articolo.
La formulazione normativa dell’art. 24, comma 1, T.U. Edilizia ha ampliato il valore legale della certificazione, statuendo che il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
La disposizione ha ancora provveduto alla semplificazione del procedimento di rilascio del certificato, tramite la concentrazione delle competenze presso lo sportello unico per l’edilizia e la previsione di una forma di silenzio-assenso, in caso di mancata risposta dell’amministrazione entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza da parte dell’interessato, corredata dagli appositi documenti richiesti dalla legge.
Quindi, il D.Lgs. n. 222 del 2016, nel modificare la disciplina in tema di agibilità, non allude più al rilascio di apposita certificazione, neanche mediante la procedura del silenzio-assenso, posto che la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati è valutata secondo quanto dispone la normativa vigente, con l’effetto che la conformità dell’opera al progetto presentato dovrà essere attestata mediante “segnalazione certificata”.
Ne consegue la sostanziale assunzione di responsabilità da parte del professionista, tenuto ad attestare la sussistenza dei requisiti di legge, senza che sia rilasciato un apposito provvedimento espresso e senza che maturi un titolo avente natura provvedimentale mediante silenzio-assenso.
Sicché, ai fini dell’agibilità, entro 15 giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento, il soggetto titolare del permesso di costruire o il soggetto che ha presentato la segnalazione certificata di inizio di attività, o i loro successori o aventi causa, presenta allo sportello unico per l’edilizia la “segnalazione certificata” degli interventi realizzati.
In caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti per la presentazione della segnalazione certificata di agibilità, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, nel termine di 30 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’utilizzo e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di esso».
Tanto premesso quanto all’evoluzione del plesso normativo dedicato all’istituto, si è provveduto ad «indagare sulle conseguenze (come articolate dalla giurisprudenza di legittimità) che discendono dalla “carenza” del certificato o licenza di abitabilità (recte di agibilità).
“Carenza” cui si fa riferimento in termini ambigui, sia per indicare la mancanza (sostanziale) delle condizioni sottese al rilascio dell’attestazione, sia per significare il difetto (formale) del documento in sé».
Orbene, si è precisato che «in primis, deve escludersi che la carenza sostanziale o formale dell’agibilità infici la validità “strutturale” del contratto traslativo per illiceità dell’oggetto», con la conseguenza che «il rilievo in forza del quale l’abitazione sia priva dell’agibilità non determina comunque la nullità del contratto per la sua incommerciabilità […].
Non è dato altresì rintracciare una norma imperativa, che contempli l’obbligo di un preventivo rilascio del certificato in questione e, dunque, neppure è configurabile una nullità “virtuale”.
Né si può escludere che le parti, nella loro autonomia, abbiano un meritevole interesse a contrattare ex art. 1322 c.c., pur in assenza del certificato.
Ed invero, l’attività costruttiva non viene in gioco nel contratto come oggetto della prestazione, ma solo in chiave strumentale, con l’effetto che è la costruzione di un immobile senza l’osservanza delle prescrizioni igieniche, di salubrità, sicurezza (e in tema di risparmio energetico) a colorare di illecito l’attività del costruttore o del venditore, il che, ad ogni modo, non implica l’illiceità dell’oggetto della vendita.
Da tali considerazioni emergono rilevanti conseguenze pratiche anche in ordine alla prestazione professionale cui è tenuto il notaio, che non può rifiutare di ricevere l’atto di vendita in mancanza del certificato, atteso che l’ordinamento riconosce al pubblico ufficiale rogante la facoltà di rifiutare legittimamente il suo ministero solo a fronte di atti espressamente proibiti dalla legge, ossia nei casi in cui la nullità sia comminata espressamente o sia desumibile in modo inequivoco.
Il che comunque non lo esonera da un obbligo qualificato di informativa delle parti quanto alla rilevazione di detta “carenza”».
La Corte ha dunque posto in evidenza che «accertato che l’assenza del certificato non comporta un vizio genetico del contratto, i riflessi dell’inagibilità non possono che operare sul piano dell’attuazione del programma negoziale», derivandone che «la parte che si duole di detta carenza è dunque legittimata esclusivamente – e a certe condizioni – a rivendicare l’alterazione del sinallagma funzionale».
Si è rilevato, in proposito, che risulta «superato […] l’orientamento che riconduceva la mancanza dei requisiti di agibilità all’art. 1489 c.c., ossia alla possibilità di richiedere la risoluzione del contratto di vendita o la riduzione del prezzo ove la cosa alienata fosse stata gravata da oneri o diritti reali o personali di godimento di terzi “non apparenti”, idonei a diminuirne il libero godimento e non dichiarati in contratto, di cui il compratore non avesse avuto conoscenza.
In base a questo orientamento, la violazione, da parte del promittente alienante di un immobile, dell’obbligazione assunta col contratto preliminare di provvedere a rendere l’immobile stesso conforme alle prescrizioni di legge, ivi comprese quelle concernenti le condizioni per il rilascio del certificato di abitabilità, avrebbe legittimato il promissario acquirente, appunto in applicazione analogica del disposto dell’art. 1489 c.c., a richiedere la risoluzione di detto contratto, senza che vi ostasse l’astratta possibilità, per quest’ultimo, di accertare presso la competente amministrazione il difetto delle prescritte autorizzazioni amministrative alla realizzazione dell’opera, in quanto essa non avrebbe integrato gli estremi dell’apparenza del difetto medesimo ovvero della sua concreta conoscenza o conoscibilità con l’ordinaria diligenza […] ad ogni modo, l’assenza dei requisiti di abitabilità non integra un onere o un vincolo o un peso, bensì una limitazione funzionale dell’immobile, potenzialmente incidente sulla sua concreta destinazione, il che preclude l’inquadramento sistematico della fattispecie nell’alveo della norma innanzi evocata».
Si è così sostenuto che «in adesione al consolidato indirizzo giurisprudenziale, la mancanza dei requisiti funzionali all’agibilità incide sulla regolarità giuridica del rapporto negoziale e, all’esito, può importare la risoluzione del contratto.
Secondo la ricostruzione di questa Corte, in tema di compravendita immobiliare, la mancata consegna al compratore del certificato di abitabilità non determina, in via automatica, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto l’importanza e la gravità dell’omissione in relazione al godimento e alla “commerciabilità” del bene, sicché, ove in corso di causa si accerti che l’immobile promesso in vendita presentava tutte le caratteristiche necessarie per l’uso suo proprio e che le difformità edilizie rispetto al progetto originario erano state “sanate” a seguito della presentazione della domanda di concessione in sanatoria, del pagamento di quanto dovuto e del formarsi del silenzio-assenso sulla relativa domanda, la risoluzione non può essere pronunciata […]» rilevando che la «medesima conclusione vale per l’atto di vendita concluso tra le parti, senza la previa stipulazione di un preliminare».
Pertanto, «solo ove difettino – in termini assoluti e senza possibilità di sanatoria – i requisiti igienico-sanitari e di sicurezza per ottenere l’agibilità, la vendita può essere risolta per l’intervenuta consegna di aliud pro alio datum.
E ciò anche quando alla pronta verifica dell’insussistenza delle condizioni di igiene, salubrità e sicurezza si accompagni il formale (ed evidentemente inappropriato) rilascio della certificazione di agibilità, rilevando, nella specie, il vizio sostanziale correlato ad una carenza strutturale e non il mero dato formale dell’attestazione confermativa del rispetto delle prescrizioni (non corrispondente alla realtà dei fatti).
Ne deriva che, in tale ambito, deve operarsi una discriminazione qualitativa tra difformità sanabili e insanabili, collegata alla natura e alla rilevanza delle prescrizioni violate, allo scopo di diversificare sinergicamente le azioni esperibili: 1) allorché l’inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie e di sicurezza si consacri in una difformità non riparabile, è integrata la fattispecie della vendita di aliud pro alio; 2) si ha, invece, vizio redibitorio oppure mancanza di qualità essenziali, allorché il mancato rispetto delle prescrizioni sia suscettibile di sanatoria.
Ed invero, la progressione della gravità “qualitativa” delle carenze rilevate, in correlazione con i rimedi esperibili, si adegua alla consolidata ripartizione elaborata in sede nomofilattica […] nei termini che seguono.
- A) Si ricade nel campo di operatività della garanzia edilizia in senso tecnico per vizi redibitori (rilevante sul piano oggettivo), con riferimento alla cosa consegnata, qualora questa presenti imperfezioni che la rendano inidonea all’uso cui dovrebbe essere destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
- B) Si ha, invece, mancanza di qualità essenziali quando – in ragione delle alterazioni subite – la cosa appartenga, per sua natura o per gli elementi che la caratterizzano, ad un tipo o ad una specie diversa da quella pattuita, pur rimanendo nell’ambito dello stesso genere.
- C) Per contro, sussiste consegna di aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., qualora il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita».
In applicazione di tale criterio distintivo, si è statuito, in definitiva, che «alla “mancanza” del certificato di abitabilità (recte del certificato di agibilità) possono essere ricondotte le seguenti diverse fattispecie, con eterogenee conseguenze:
- a) il difetto della richiamata certificazione può essere ascrivibile all’assenza (in senso sostanziale-funzionale), in radice, dei requisiti di conformità igienico-sanitaria, di sicurezza e sul risparmio energetico, volti a rendere abitabile o agibile l’immobile – assenza che non sia sanabile in termini assoluti -: in tal caso, il bene oggetto del negozio traslativo (o della promessa di vendita) assume connotazioni completamente diverse da quelle pattuite (ossia appartiene ad un genere o sottogenere diverso, rivelandosi funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l’utilità richiesta), con la correlata possibilità di esperire l’azione di risoluzione (per vendita di aliud pro alio), senza soggiacere alle strettoie decadenziali e prescrizionali delle garanzie edilizie;
- b) oppure la mancanza sostanziale dei requisiti igienico-sanitari può determinare un vizio della cosa alienata ovvero una mancanza di qualità essenziali, laddove le difformità accertate siano sanabili e, dunque, non abbiano un’incidenza strutturale e funzionale sulla destinazione economico-sociale del bene;
- c) in ultimo, la carenza della relativa certificazione può avere un rilievo esclusivamente formale-documentale, in quanto, pur sussistendo i requisiti di conformità alle prescrizioni igienico-sanitarie, di sicurezza e sul risparmio energetico, la pratica amministrativa volta ad ottenere il rilascio di tale attestazione non sia stata avviata o ultimata, a cura dell’alienante o del promittente venditore, in tal caso derivandone a priori che il contratto non può essere risolto, atteso che l’inadempimento dedotto non è talmente grave da dar luogo ad uno squilibrio funzionale del sinallagma negoziale, sebbene possa esserne invocato l’adempimento e possa essere azionata la relativa tutela risarcitoria» (Cassazione civile, sez. II, n. 23605/2023).
[1] Cfr. articolo 10, comma 1, lettera d), numero 2), del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020.
[2] https://www.studiotecnicopagliai.it/regolamento-edilizio-comunale-possibile-obbligo-licenza-regio-decreto-297-1911/
[3] Cfr. articolo 10, comma 1, lettera p), del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020.
[4] Cfr. Relazione illustrativa al D.L. n. 76/2020.
[5] D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020.