Il Regolamento edilizio-tipo può dirsi lesivo dell’autonomia comunale?
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 125 del 2017, si è pronunciata anche in relazione alla censura proposta avverso 17-bis del cd. «Decreto Sblocca Italia[1]» in riferimento all’articolo 117, comma sesto della Costituzione, ritenendo errato «il presupposto interpretativo da cui muove la Regione ricorrente, secondo cui lo schema di regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di una fonte regolamentare, invasiva della potestà riconosciuta alle regioni dalla citata disposizione costituzionale».
Nell’esaminare l’ambito di competenza regolamentare si è sottolineato, difatti, che «questo schema di regolamento-tipo non solo, per quel che qui rileva, difetta dei requisiti formali previsti dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), ma risulta anche privo degli usuali contenuti delle fonti regolamentari, che si traducono, comunque, in norme generali e astratte, anche se di dettaglio, destinate ad innovare l’ordinamento giuridico (da ultimo, Consiglio di stato, sezione VI, sentenza 30 novembre 2016, n. 5036)».
In tal senso «la procedura ampia e articolata che prelude alla adozione di detto regolamento-tipo è il riflesso della sua particolare natura: esso non ha alcun contenuto innovativo della disciplina dell’edilizia ma svolge una funzione di raccordo e coordinamento meramente tecnico e redazionale, venendo a completare il principio (fondamentale) contenuto nella disposizione legislativa. Peraltro, come pure precisato da questa Corte, «[l]’art. 117, sesto comma, Cost. […] preclude allo Stato, nelle materie di legislazione concorrente, non già l’adozione di qualsivoglia atto sub-legislativo, […] bensì dei soli regolamenti, che sono fonti del diritto, costitutive di un determinato assetto dell’ordinamento» (sentenza n. 284 del 2016)».
Con riguardo all’esercizio del potere regolamentare da parte degli enti locali – che fa seguito all’Intesa ed al successivo recepimento regionale – è stato posto in evidenza che, «nell’adempiere al necessario obbligo di adeguamento delle proprie fonti normative al “tipo” concertato in Conferenza unificata e recepito dalle singole Regioni», i Comuni «godranno di un ragionevole spazio per intervenire con riferimenti normativi idonei a riflettere le peculiarità territoriali e urbanistiche del singolo comune, tramite l’esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in materia edilizia (art. 117, sesto comma, Cost.; artt. 2, comma 4, e 4 del citato TUE)»[2].
Emerge dunque dalla pronuncia de qua, che ad avviso della Corte costituzionale, l’autonomia di cui godono i Comuni nel disciplinare l’attività edilizia per mezzo di propri regolamenti – la quale, come ampiamente illustrato, trova la sua attuale legittimazione in molteplici fonti di rango tanto costituzionale quanto primario[3] – non sembra potersi ritenere, nei termini sin qui illustrati, intaccata dall’introduzione del Regolamento edilizio-tipo.
[1] D.L. n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Per mero spirito di completezza si segnala che la Corte costituzionale è pervenuta «ad una soluzione identica, anche se tramite un percorso argomentativo in parte diverso […] in riferimento al ricorso proposto dalla Provincia autonoma di Trento», ritenendo, in ultima istanza, operante la clausola di salvaguardia richiamata dall’articolo 43-bis del cd. «Decreto Sblocca Italia», con cui si è previsto che «le disposizioni del presente decreto sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione»: riscontrando che essa svolge un funzione generale di limite per l’applicazione delle norme statali ove queste siano in contrasto con gli statuti e le relative norme di attuazione, e che «[…] lungo tale direzione si muove anche l’intesa nel frattempo intervenuta, che non soltanto riproduce la clausola di salvaguardia, ma include, tra gli enti territoriali interessati alla procedura di recepimento, le sole regioni a statuto ordinario», la Corte ha quindi concluso statuendo che «[…] lo scrutinio sull’applicabilità nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale e delle Province autonome «non incide sulla ammissibilità delle questioni sollevate, ma sulla loro fondatezza» (sentenza n. 40 del 2016): in altri termini, l’inapplicabilità esclude la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale basate sulla violazione dei parametri statutari (sentenze n. 31 del 2016 e n. 241 del 2012). Di qui la reiezione del ricorso promosso dalla Provincia autonoma di Trento».
[3] Cfr. par. 1.