LUGLIO 2023 – La prassi della cd VALIDAZIONE nel regolamento edilizio

La prassi della cd. «validazione» nell’ambito del regolamento edilizio: profili di rilievo anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 217 del 2022. 

 

In conclusione della presente disamina si intende porre l’attenzione sull’atteggiarsi della prassi amministrativa della cd. «validazione» nell’ambito dei regolamenti edilizi comunali, esaminandone alcuni profili di rilievo, emergenti anche a seguito della recente sentenza n. 217 del 2022 della Corte costituzionale.

 

Al fine di delineare alcune considerazioni giuridiche in proposito, giova porre alcune premesse, in primis rammentando che detto istituto è imperniato su un quadro legislativo ormai risalente nel tempo: ci si riferisce al periodo precedente all’entrata in vigore della cd. «Legge Bucalossi»[1], che ha espressamente collegato la facoltà di costruire ad una concessione, emessa dai Comuni all’esito di un’istruttoria connessa ad un procedimento amministrativo attivato ad istanza del privato, così comportando il venir meno di una libertà nelle forme dei provvedimenti fondata sulla stretta correlazione tra facoltà di edificare e diritto di proprietà vantato dal titolare sul proprio fondo.

Per tale ragione, nel periodo precedente alla cd. «Legge Bucalossi», non essendo ancora diffusa la prassi della variante in corso d’opera ai progetti già dotati di licenza edilizia, si è assistito piuttosto frequentemente alla casistica di immobili che hanno ottenuto il rilascio del certificato di abitabilità all’esito del prescritto sopralluogo, sebbene realizzati con delle difformità, rispetto agli elaborati progettuali, da ricondursi alla fase di esecuzione dei lavori: si ricorda, difatti, che in tale epoca la certificazione di agibilità era soggetta alla disciplina di cui all’articolo 221 del R.D. n. 1265/1934, a mente del quale «gli edifici o parti di essi indicati nell’articolo precedente non possono essere abitati senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione dell’ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità».

Atteso tutto quanto sopra, in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza si è sviluppata la tesi della cd. «sanatoria implicita», essendosi dibattuto sulla possibilità di ritenere il certificato de quo quale atto sanante eventuali difformità edilizie riscontrate in sede di rilascio, riportando la stessa certificazione allo schema del cd. «atto amministrativo implicito»: autorevole giurisprudenza ha ritenuto che «il certificato di agibilità, anche alla luce di tale normativa, fosse finalizzato esclusivamente alla tutela dell’igienicità, salubrità e sicurezza dell’edificio e non fosse diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto», pur tuttavia ammettendo che «ciò non esclude che la valutazione effettuata in sede di agibilità presupponesse anche una verifica di conformità edilizia, ma, in questo caso, “si tratta di una verifica edilizia funzionale al rilascio della agibilità e svolta quindi nei limiti necessari a inferirne l’assentibilità della agibilità; ben diverso e distinto è il profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli edilizi, che non appare ricavabile da un incidentale accertamento compiuto in sede di rilascio della licenza di agibilità”» (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 2456/2018).

Nonostante alcune pronunce, tra cui quella appena citata – pur riconoscendo che la valutazione effettuata in tale sede presupponesse una verifica, seppur incidentale, di conformità edilizia – si siano mostrate critiche nei confronti dell’operatività del meccanismo de quo  e della configurabilità di una sanatoria (ancorché implicita), deve darsi atto di come altra parte della giurisprudenza si sia espressa, al contrario, nel senso di affermare l’effetto validante del certificato di abitabilità in quanto condizionato non soltanto alla salubrità degli ambienti, ma anche – come detto – alla conformità edilizia dell’opera, sicché – si è sostenuto –  attesa la presunzione iuris tantum di legittimità degli atti amministrativi, col rilascio del certificato di agibilità devono intendersi verificate, salvo prova contraria, entrambe le suddette condizioni (Cassazione Civile, Sez. II, n. 17498/2012).

Si è da ultimo inserita nella suddetta querelle giurisprudenziale la citata sentenza n. 217 del 2022 della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata avverso l’articolo 7 della L.R. Veneto n. 19/2021, che ha introdotto l’articolo 93-bis nella L.R. Veneto n. 61/1985, per asserito contrasto con l’articolo 117, comma 3 della Costituzione relativamente all’articolo 9-bis, comma 1-bis del D.P.R. n. 380/2001, nonché con gli articoli 3, 117, commi 1, 3 e 7 della Costituzione.

La norma oggetto di impugnazione ha previsto, rispetto a due distinte fattispecie, altrettante definizioni del concetto di stato legittimo degli immobili a fini edilizio-urbanistici. Nello specifico, ai sensi del comma 1 dell’articolo 93-bis «in attuazione dell’articolo 9-bis, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, lo stato legittimo di immobili in proprietà o in disponibilità di soggetti non autori di variazioni non essenziali risalenti ad epoca anteriore al 30 gennaio 1977, data di entrata in vigore della legge 10/1977 e dotati di certificato di abitabilità/agibilità, coincide con l’assetto dell’immobile al quale si riferiscono i predetti certificati, fatta salva l’efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi»; con il successivo comma 2, il legislatore regionale ha disposto che «lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al 1° settembre 1967 è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».

La Corte ha ritenuto fondata la questione prospettata in riferimento all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, dichiarando costituzionalmente illegittima la norma impugnata per contrasto con i principi fondamentali della materia «governo del territorio» dettati dall’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001.

Tanto premesso in termini generali, preme ora approfondire le considerazioni sviluppate in ordine al primo comma della richiamata disposizione regionale, attinente alla prassi amministrativa della cd. «validazione»: a tale propositoad avviso della difesa regionale, il richiamo al certificato di agibilità o abitabilità contenuto nella previsione impugnata non introduce una deroga alla disciplina statale, ma solo un’opzione specificativa di quanto già contenuto nell’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, il quale attribuisce ad altri atti, pubblici o privati, diversi dal titolo abilitativo, l’idoneità a fondare lo stato legittimo degli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo. Inoltre, secondo quanto osservato dalla Regione Veneto, prima dell’entrata in vigore della cd. «Legge Bucalossi» l’istituto delle variazioni rispetto al progetto non era regolato dalla legge, con la conseguenza che le varianti non essenziali ai progetti già dotati di licenza edilizia venivano realizzate in assenza di ulteriori atti autorizzatori e di esse il Comune si limitava a prendere atto in occasione del sopralluogo previsto dall’articolo 221 del R.D. n. 1265/1934 finalizzato al rilascio del certificato di abitabilità. Di qui, ad avviso della Regione Veneto, l’idoneità delle risultanze di quest’ultimo certificato a dimostrare la consistenza e lo stato legittimo degli immobili secondo il disposto del comma 1 dell’articolo 93-bis citato.

Per comprendere le ragioni che hanno condotto al pronunciamento della Corte costituzionale, occorre ricordare che la disposizione regionale impugnata – afferendo all’urbanistica e all’edilizia – si ascrive alla materia di legislazione concorrente «governo del territorio», di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nella quale la potestà legislativa spetta alle Regioni «salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Relativamente a tale ambito, la Corte costituzionale ha condiviso l’assunto del ricorso che ravvisa un principio fondamentale della materia nell’articolo 9-bis, comma 1-bis del D.P.R. n. 380/2001, introdotto nel 2020 dal cd. «Decreto Semplificazioni[2]»: il citato articolo dispone che «lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia».

La previsione statale individua, dunque, in termini generali la documentazione idonea ad attestare lo stato legittimo dell’immobile«definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni – comprovate anche dai lavori preparatori – sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore edilizio, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili». La Corte ha sottolineato, inoltre, che «il contenuto prescrittivo di ampio respiro e le finalità perseguite dalla norma depongono a favore della sua qualifica in termini di principio fondamentale della materia, ciò trova conferma altresì nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle «Disposizioni generali» del Titolo II della Parte I T.U. edilizia, dedicato ai «Titoli abilitativi»: perciò «non può dubitarsi che i criteri di determinazione dello stato legittimo dell’immobile rappresentino un principio fondamentale della materia, che richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale».

Chiarita la natura della disposizione, la Corte costituzionale ha ritenuto palese la distanza della previsione regionale impugnata dal contenuto della norma di principio, con la quale si pone in contrasto. Invero, «prendendo le mosse dal comma 1 dell’art. 93-bis della L.R. n. 61/1985, deve constatarsi che quest’ultimo associa lo stato legittimo dell’immobile a un documento – il certificato di abitabilità o agibilità – che è ben diverso dal titolo abilitativo edilizio, richiesto dall’art. 9-bis, comma 1-bis, D.P.R. n. 380/2001 sul presupposto della sua obbligatorietà. E il titolo abilitativo era, in effetti, obbligatorio nel periodo e rispetto al tipo di intervento (le variazioni non essenziali), cui si riferisce la disposizione regionale».  Il Giudice costituzionale, infatti, non ha condiviso l’argomentazione sviluppata dalla difesa regionale secondo cui, prima dell’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, le variazioni non essenziali, in quanto non disciplinate, sarebbero state per prassi consentite, fatta salva la semplice ispezione compiuta in vista del rilascio del certificato di abitabilità ex articolo 221 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265: nella pronuncia è stato evidenziato che le variazioni non essenziali de quibus richiedevano il rilascio del titolo abilitativo in quanto, già a far data dal 1° settembre 1967 – in base all’articolo 31 della legge n. 1150 del 1942, come modificato dall’articolo 10 della legge n. 765 del 1967 – chiunque intendesse, nell’ambito dell’intero territorio comunale, eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, era tenuto a richiedere apposita licenza al sindaco.

A quanto sopra la Corte ha aggiunto, peraltro, un’ulteriore considerazione: «se è certamente vero che, in base all’art. 221 del R.D. n. 1265/1934 (vigente nel periodo cui si riferisce la disposizione regionale), il certificato di abitabilità doveva essere rilasciato solo dopo aver verificato che la costruzione fosse stata eseguita in conformità al progetto approvato, nondimeno, questo non giustifica che tale documento possa surrogarsi al titolo abilitativo edilizio». In definitiva, nella sentenza non viene avallata l’introduzione, nel primo comma della norma regionale censurata, della cd. «validazione» poiché – sostituendo al titolo abilitativo il certificato di agibilità – tale prescrizione si pone in contrasto con quanto previsto dalla disciplina statale di principio, esorbitando i limiti della potestà legislativa concorrente fissati dall’articolo 117, comma terzo della Costituzione.

La Corte costituzionale si è pronunciata anche in merito alla previsione – introdotta dalla disposizione impugnata – di cui al secondo comma dell’articolo 93-bis della legge della Regione Veneto n. 61/1985, a mente del quale «lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al 1° settembre 1967 è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».

Nell’affermare che tale norma presenta discrasie con quanto enunciato dall’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale, sono stati posti in luce significativi aspetti in merito alla potestà regolamentare comunale.

Al fine di esporre il ragionamento articolato nella sentenza occorre previamente inquadrare il contesto normativo su cui incide la disposizione de qua: rileva la Corte, invero, che il comma in esame, «nel dissociare lo stato legittimo dell’immobile al titolo abilitativo edilizio, apparentemente si correla al secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, che esclude, ai fini dello stato legittimo, la necessità di tale documentazione per il periodo in cui il titolo edilizio non era obbligatorio.  E, in effetti, prima della legge n. 765 del 1967, entrata in vigore proprio il 1° settembre 1967, l’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 imponeva in via generale la licenza di costruzione solo nei centri abitati e, per i comuni dotati di un piano regolatore generale, nelle zone di espansione esterne a essi».  «Sennonché» – prosegue la pronuncia – «pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti».

La Corte costituzionale richiama così alcune fonti primarie per i Comuni ricadenti in zona sismica (segnatamente il regio decreto-legge n. 640/1935 ed il regio decreto-legge n. 2105/1937), nonché – in termini più generali – le fonti regolamentari.  Con riferimento a queste ultime, in particolare, si afferma che «l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo»: vengono citati a tal uopo il regio decreto n. 5921/1889, il regio decreto n. 269/1908 ed il regio decreto n. 148/1915. «Se ne desume, dunque, che, prima della data indicata nel comma 2 della disposizione regionale impugnata, vi erano comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici, sia sulla base di fonti non primarie, che però attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare», con la conseguenza – seguita la sentenza – che «l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove si riferisce alla obbligatorietà del titolo, abbraccia certamente anche le citate fonti, il che determina il disallineamento dell’art. 93-bis, comma 2, della legge regionale impugnata […]».

Quanto sopra oltre ad evidenziare che «altro è consentire – come fa l’art. 9-bis, comma 1-bis, secondo periodo, t.u. edilizia – l’attestazione semplificata dello stato legittimo per gli immobili realizzati in epoche in cui il titolo non era obbligatorio, altro è negare l’efficacia di titoli abilitativi legittimamente rilasciati».

 È appena il caso di rilevare che a sostegno di tali conclusioni viene ricordato che pure la giurisprudenza amministrativa «ha ribadito la persistente vigenza dei regolamenti comunali emanati anteriormente all’approvazione della legge urbanistica (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 29 luglio 2019, n. 5330 e, sezione sesta, sentenza 28 luglio 2017, n. 3789)».

Da tale percorso argomentativo discende, pertanto, che «anche il comma 2 dell’art. 93-bis compromette le funzioni che la norma statale interposta attribuisce all’attestazione dello stato legittimo, finendo addirittura con l’incidere su titoli abilitativi edilizi pienamente validi ed efficaci».

Il principio che se ne ricava – e su cui occorre porre l’attenzione – è che i regolamenti edilizi comunali, traendo la loro legittimazione dalla fonte primaria, potevano introdurre degli obblighi cogenti di licenza edilizia anche laddove tali obblighi non erano previsti dalla legislazione statale.

Dall’applicazione del principio appena delineato al quadro legislativo odierno è possibile trarre delle significative implicazioni anche con riguardo alle ipotesi di cd. «validazione» eventualmente accordate dai Comuni nei propri regolamenti edilizi all’esito dell’adeguamento allo schema-tipo approvato dalla Regione Lombardia con D.G.R. n. XI/695 del 2018.

A tal proposito giova richiamare i tratti essenziali della cornice normativa vigente delineati in apertura della presente trattazione, laddove è stato esplicitato che l’autonomia comunale in materia edilizia origina dal dettato costituzionale, consolidandosi e trovando fondamento in importanti riferimenti legislativi, tra cui – per quanto qui di interesse – il cd. «Testo unico enti locali» ed il cd. «Testo unico edilizia».

Orbene, sulla scorta dei rilievi de quibus ed in ossequio ai principi ed ai criteri interpretativi ricavabili dalla sentenza n. 217 del 2022 della Corte costituzionale, può affermarsi che i Comuni dispongono di autonomia normativa in materia edilizia, la cui legittimazione risulta conferita da disposizioni di grado costituzionale e primario.

Muovendo da tali presupposti è possibile svolgere una considerazione conclusiva in ordine all’eventuale inserimento di prescrizioni afferenti alla cd. «validazione» nei regolamenti edilizi comunali: se, difatti – come illustrato dalla pronuncia esaminata – questi ultimi, traendo la loro legittimazione da una fonte di rango primario, potevano introdurre degli obblighi cogenti di licenza edilizia anche in un’epoca ed in un contesto normativo in cui tali obblighi non erano previsti dalla disciplina statale, non pare potersi escludere – applicando il medesimo principio al quadro legislativo attuale – che il pianificatore locale non possa oggi prevedere fattispecie tecniche che rientrano nella sfera di operatività dell’istituto de quo.

 

[1] Si rammenta che la cd. «Legge Bucalossi» (L. n. 10/1977) è entrata in vigore il 30.01.1977.

[2] Segnatamente dall’articolo 10, comma 1, lettera d), numero 1), del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020.