Accertamento conformità sanatoria straordinaria condono edilizio preavviso di rigetto
Accertamento di conformità e false asseverazioni: nuovi chiarimenti dalla Corte di Cassazione.
In questo contesto deve essere esaminata la pronuncia Cassazione Penale sez. III, 19/01/2023, n.19314 che si è pronunciata in merito all’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 20, comma 13 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione alle false asseverazioni rilasciate dal tecnico incarico nella procedura di accertamento di conformità, al fine di indagare i profili di responsabilità penale del tecnico nonché l’applicabilità della norma de qua al permesso di costruire in sanatoria.
In primo luogo si evidenzia che tale norma, introdotta dall’art. 5, n. 3 del D.L. n. 70/2011 nell’ambito della disciplina del “Procedimento per il rilascio del permesso di costruire”, prevede che “ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni. In tali casi, il responsabile del procedimento informa il competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari”.
La figura di reato risulta riferita precipuamente alle false attestazioni destinate a confluire nel procedimento amministrativo finalizzato al conseguimento del permesso di costruire, per cui la fattispecie assume carattere speciale rispetto alla norma generale di cui all’art. 481 c.p., come pure è speciale rispetto alla norma codicistica il reato di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990 che concerne il differente modulo procedimentale della SCIA. In questo senso è stato osservato che “la nuova previsione criminosa in vigore dal 2011 n. 106, che punisce le false dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni circa l’esistenza dei requisiti e presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ha un ambito applicativo che si sovrappone interamente alla fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.[1]) e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.[2]), di cui assorbe il disvalore, e si consuma quando oggetto di asseverazione siano non esclusivamente fatti che cadono sotto la percezione materiale dell’autore della dichiarazione, ma giudizi”.
Tanto considerato, ad avviso dei giudici di legittimità non vi è ragione per non applicare la fattispecie in esame alle false dichiarazioni rese dal tecnico-professionista nell’ambito dell’accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, “che altro non è che un permesso di costruire che differisce da quello ordinario per il fatto di essere postumo rispetto all’esecuzione dei lavori, ma ciò non toglie che al procedimento di cui all’art. 36 possa applicarsi, senza che ciò comporti alcuna violazione del divieto di analogia in malam partem, il medesimo regime sanzionatorio previsto dall’art. 20 del medesimo decreto, e ciò tanto piò ove si consideri che la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere, in caso di permesso in sanatoria, in coerenza con la previsione di cui all’art. 36, comma 1, il requisito della cd. “doppia conformità”, […], aspetto questo che corrobora il giudizio circa la sostanziale sovrapponibilità del procedimento di sanatoria rispetto a quello ordinario finalizzato al conseguimento del permesso”, tanto più che la relazione tecnica del professionista incaricato presentata nella procedura di accertamento di conformità, al di là di alcune differenze procedimentali tra schema ordinario e procedura di sanatoria, non è un atto neutro, ma costituisce il presupposto valutativo più pregnante, contenendo i dati tecnici essenziali ai fini della verifica della doppia conformità, tale da comportare rilievo penale delle attestazioni mendaci eventualmente rese dal professionista incaricato.
Diversamente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità del reato di falsità ideologica in certificati di cui al citato art. 481 c.p. in relazione all’art. 29, comma 3 del D.P.R. n. 380/2001[3] in capo al progettista che asseveri nella relazione tecnica allegata ad una domanda di sanatoria ex art. 37 d.P.R. n. 380/2001 una conformità delle opere agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio comunale non corrispondente al vero, precisando che “a nulla rileva che le opere, dopo la presentazione della SCIA, non furono realizzate, stante la natura istantanea dell’atto in esame, il quale ha natura di “certificato” ex art. 481 cod. pen. per quel che riguarda non solo la descrizione dello stato dei luoghi e la ricognizione di eventuali vincoli esistenti sull’area oggetto dell’intervento edilizio, ma anche, e soprattutto, la rappresentazione delle opere che si intendono realizzare e loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio” (Corte di Cassazione 07/11/2022, n. 41814).
Condono edilizio: il punto della giurisprudenza sul campo di operatività della sanatoria straordinaria.
Dopo aver affrontato gli istituti di cd. “sanatoria ordinaria” degli abusi edilizi, come disciplinati dal D.P.R. n. 380/2001, preme ora soffermarsi sul condono edilizio, quale istituto di carattere eccezionale che consente l’avvio di un’apposita procedura di regolarizzazione degli abusi edilizi, a cui consegue, in presenza dei presupposti normativamente prescritti, la sanatoria degli effetti sia amministrativi che penali originati dalla realizzata violazione e la paralisi dei provvedimenti sanzionatori che siano stati nel contempo adottati. [4]
Nell’eccezionale sistema del condono edilizio di cui all’art. 35, comma 18 della legge n. 47/1985, è previsto che “fermo il disposto del primo comma dell’articolo 33, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento. Trascorsi trentasei mesi si prescrive l’eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettante”.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha statuito che “ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985, il silenzio assenso previsto in tema di condono edilizio non si forma solo in virtù dell’inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e dell’adempimento degli oneri documentali ed economici necessari per l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova della ricorrenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinata l’ammissibilità del condono, tra i quali rientra, per il condono del 2003, il fatto che l’immobile ad uso residenziale risulti ultimato, ossia completato al rustico, entro il 31 marzo 2003. Ne deriva che il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano tutte le condizioni previste per il suo accoglimento, inclusa la tempestiva ultimazione dell’opera abusiva” (Consiglio di Stato sez. VII, 12/06/2023, n.5742).
La giurisprudenza ha altresì precisato che l’onere della prova sulla ricorrenza dei presupposti per la condonabilità delle opere grava sull’istante, tra cui, in primis, la prova della data di ultimazione delle opere edilizie, in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori, mediante i quali è possibile stabilire con certezza l’epoca di realizzazione del manufatto. In proposito, si evidenzia che ai fini della determinazione dell’ultimazione dei lavori per il condono edilizio l’art. 31, comma 2 della legge n. 47/1985 prevede due criteri alternativi: un criterio “strutturale”, che vale nei casi di nuova costruzione e un criterio “funzionale”, che opera nei casi di opere interne di edifici già esistenti, oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale.
Significativa, al riguardo, è la recente pronuncia Consiglio di Stato sez. VI, 22/09/2023, n.8469 a detta della quale “quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”, espressione con la quale si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 16 ottobre 1998, n. 130)”; mentre “la nozione di completamento funzionale implica, invece, uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso”.
Una deroga alla suesposta nozione di ultimazione delle opere è riscontrabile nell’art. 43, comma 5, della legge n. 47/1985 ai sensi del quale “possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell’abuso e di riferimento per la determinazione dell’oblazione sarà individuato nella data del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale”. Tuttavia, tale deroga va interpretata in termini strettamente circostanziati e, “se non si vuole stravolgere il fondamento dell’istituto e la forza prescrittiva dell’attività di repressione degli abusi edilizi (ad opera dell’autorità giudiziaria), il grado di completamento dell’opera abusiva deve essere tale da consentire di percepire la concreta fisionomia e destinazione dell’opera da sanare e da completare. La norma in questione, in altre parole, può essere invocata soltanto per eseguire interventi funzionali e accessori a quanto già costruito, mentre deve ritenersi preclusa la possibilità di sanatoria per opere il cui grado, appena iniziale, di realizzazione non consenta di riconoscerne la funzione e la configurazione generale”.
Allo stesso modo, la giurisprudenza, come richiamata da Cassazione Penale sez. III, 19/01/2023 n.4222, è ferma nel ritenere che “è illegittimo, e non determina l’estinzione del reato edilizio di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. b), né di quello paesaggistico, e dunque non costituisce neppure valido presupposto per la revoca dell’ordine di rimessione in pristino, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all’esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell’alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica” .
Interventi edilizi ammessi in pendenza del procedimento di condono.
In termini generali, deve osservarsi che è tassativamente impedita la modificazione delle opere oggetto della domanda di condono, se non con l’osservanza delle cautele previste dall’art. 35, comma 13 della legge n. 47/1985 che disciplina le modalità e le condizioni in base alle quali è consentito al presentatore dell’istanza di sanatoria completare, sotto la propria responsabilità e a proprio rischio, i manufatti abusivi.
Nel dettaglio, la richiamata disposizione prevede che “decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell’oblazione, il presentatore dell’istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità” le opere oggetto della domanda; a tal fine, “l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione”.
Al di fuori della predetta ipotesi resta ferma la validità del principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, in base al quale in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche d’illiceità dell’opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, con la conseguenza che, qualora il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato opere non di rifinitura, ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria, le stesse andranno considerate, ai fini sanzionatori, come “autonomamente” abusive. [5]
La ratio di tale orientamento risiede, da una parte, nell’esigenza di evitare che le opere abusive vengano portate a ulteriore compimento per la ragione che il condono straordinario ex L. 47/85 non si fonda sulla conformità delle opere alla normativa urbanistica vigente, ma costituisce espressione di una eccezionale rinuncia dello Stato a perseguire a determinate condizioni gli illeciti edilizi; dall’altra parte, vi è anche la necessità di preservare lo stato originario delle opere oggetto di condono per consentire all’Amministrazione di accertare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità e di concedibilità del beneficio, oltre che di valutare l’effettiva natura e portata dell’intervento da condonare.
Su queste basi, l’art. 35, comma 14, della legge n. 47/1985 deve considerarsi norma di stretta interpretazione, la cui violazione innesta la presunzione che l’immobile oggetto di condono sia stato trasformato, tale da non consentire all’Amministrazione di determinare in modo preciso la consistenza delle opere oggetto dell’abuso originario. Sicché, spetta all’interessato dimostrare che l’intervento oggetto di condono è ancora riconoscibile ed è assolutamente conforme a quello rappresentato nella istanza di condono, essendo tale accertamento assolutamente necessario per la ulteriore procedibilità della domanda di condono e fermo restando che tutto quanto non sia ad essa riconducibile deve essere senz’altro demolito poiché non condonabile né sanabile.[6]
L’istituto del preavviso di rigetto nei procedimenti di sanatoria e condono edilizio.
Esaminati gli istituti volti alla sanatoria degli abusi edilizi, si intende da ultimo soffermarsi sul corretto modus procedenti per la formalizzazione del provvedimento di rigetto delle istanze de qua alla luce della recente pronuncia Consiglio di Stato sez. VI, 12/04/2023, n.3672 secondo cui “l’istituto del preavviso di rigetto (di cui all’art. 10-bis l. 7 agosto 1990, n. 241), stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione di cui al citato art. 10 bis, in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda”.
Sulla scorta di ciò, “la violazione del contraddittorio procedimentale è idonea ad inficiare la legittimità del provvedimento anche nei procedimenti vincolati, quale quello di sanatoria, quando il contraddittorio procedimentale con il privato interessato avrebbe potuto fornire all’Amministrazione elementi utili ai fini della decisione, ad esempio in ordine alla ricostruzione dei fatti o all’esatta interpretazione delle norme da applicare”. Ne deriva che, “affinché la violazione dell’art. 10 bis comporti l’illegittimità del provvedimento impugnato, in particolare, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie garanzie partecipative, ma è anche tenuto ad indicare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento”, dal momento che “la violazione dell’art. 10 bis L. n. 241/90 è idonea a determinare l’annullamento del diniego di sanatoria, qualora, alla stregua degli elementi deduttivi e istruttori forniti dalla parte privata, sia dubbio che, in caso in osservanza delle disposizioni procedimentali in concreto violate, il contenuto dispositivo dell’atto sarebbe stato identico a quello in concreto assunto”.
In proposito, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa nel senso che “l’art. 21 octies della L. n. 241/90 introduce un onere di allegazione e probatorio “rafforzato” a carico del privato che intende far valere la violazione dell’obbligo, per l’amministrazione, di comunicare preventivamente i motivi ostativi all’accoglimento di una istanza. A tale affermazione conduce anche la constatazione che la norma, solo con riferimento alla violazione dell’obbligo di dare comunicazione dell’avvio di procedimento afferma che è l’amministrazione a dover dimostrare, in giudizio, che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso: dalla differente formulazione del primo e del secondo periodo dell’art. 21 octies, comma 2, si può quindi inferire che al giudice è consentito rilevare d’ufficio l’esistenza di circostanze che rendono “palese” che il provvedimento conclusivo del procedimento non avrebbe potuto avere un diverso contenuto, allo scopo di “paralizzare” le censure finalizzate a far valere violazione procedimentali, diverse dalla mancata comunicazione dell’avvio di procedimento” (Consiglio di Stato sez. VI, 16/09/2022, n.8043).
Quanto all’onere motivazionale in capo all’Amministrazione, è stato altresì precisato che “un’applicazione corretta dell’art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione” in quanto solo in questo modo è possibile assicurare un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che il preavviso di rigetto si riduca in un inutile e sterile adempimento formale.[7]
[1] L’art. 481 c.p. – rubricato “Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità” – dispone che “Chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da da euro 51 a euro 516”.
[2] L’art. 483 c.p. – recante “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” – dispone che “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”.
[3] L’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 – rubricato “Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a segnalazione certificata di inizio attività”- al comma 3 dispone che “Per le opere realizzate dietro presentazione di segnalazione certificata di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all’articolo 23, comma 1, l’amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari”.
[4] Si rammenta che l’ordinamento nazionale reca la disciplina di tre differenti statuti di condono (il primo con la legge n. 47/1985, il secondo con la legge n. 724/1994 e il terzo con la legge n. 326/2003) la cui eterogeneità emerge sia con riferimento alla tipologia di illeciti condonabili, sia con riferimento all’iter preordinato al conseguimento della sanatoria delle opere abusive.
[5] Sul punto, Consiglio di Stato sez. VI, 22/09/2023, n.8469 precisa che la realizzazione di interventi ulteriori non giustifica, di per sé, il diniego del condono, a meno che, avendo inciso in modo radicale sullo stato dei luoghi, rendano impossibile all’Amministrazione di valutare la consistenza delle opere abusive originarie.
[6] Consiglio di Stato sez. VI, 10/03/2023, n.2568.
[7] Consiglio di Stato sez. VI, 12/04/2023, n.3672.