Contributo di costruzione e monetizzazione silenzio assenso rilascio titoli edilizi annullamento in autotutela.
La differenza ontologia tra contributo di costruzione e monetizzazione di standard urbanistici.
La recente pronuncia Consiglio di Stato sez. IV, 17/05/2023, n.4908 offre il suggerimento per appuntare l’attenzione sui principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa circa la natura e le finalità della monetizzazione sostitutiva della cessione di standard urbanistici, quale istituto di frequente utilizzo nella prassi amministrativa consistente nel versamento al Comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree ogni volta che tale cessione non venga disposta.
Invero, benché venga in considerazione la corresponsione di una somma di denaro, la giurisprudenza ha rilevato l’esistenza di una differenza ontologica tra l’istituto giuridico della monetizzazione e quello relativo al contributo di costruzione in quanto “la monetizzazione non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, essa non è infatti una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost.”. Inoltre, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento”.
Gli atti con i quali l’Amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 hanno natura privatistica, con la conseguenza che l’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità dello stesso; mentre la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento e deve considerare la vicenda edilizia così come concretamente si è manifestata.
Ciò posto, la giurisprudenza ha evidenziato come “la monetizzazione nasce come beneficio di carattere eccezionale – ammesso da previsioni di legge, di norma a livello regionale ed espressione di una valutazione discrezionale dell’amministrazione comunale – concepito come misura di favore di cui può giovarsi il richiedente un titolo edilizio che, in base allo strumento urbanistico, deve, per l’appunto, cedere o reperire nella zona in cui intende realizzare l’intervento costruttivo (o anche solo un mero cambio di destinazione d’uso senza opere) aree per la realizzazione di opere pubbliche (di regola parcheggi e verde pubblico), nel rispetto delle misure e secondo i criteri dettati dal d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, in attuazione degli artt. 41 quinquies e sexies legge urbanistica”.[1]
Sulla scorta di quanto sopra, “senza la monetizzazione il privato è posto di fronte alle seguenti alternative: non realizzare l’intervento; cedere, ove possibile, una parte del proprio immobile al comune; acquistare, in zona, a prezzo di mercato, spazi da destinare a standard”[2]. Occorre precisare che “le nuove costruzioni ai sensi dell’art. 41 quinquies cit. non sono solo quelle effettuate su aree libere ma tutte quelle iniziative edilizie che trasformano un preesistente edificio in uno oggettivamente diverso in relazione all’entità ed alla consistenza delle modifiche”.[3]
Semplificazione edilizia: il silenzio-assenso nel rilascio dei titoli edilizi.
Il silenzio significativo, nella declinazione di silenzio-assenso, si inquadra nell’ambito delle misure di semplificazione edilizia e trova applicazione nella formulazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 che, nel disciplinare il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, al comma 8 stabilisce che “decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241”.[4]
Nonostante l’apparente chiarezza normativa la giurisprudenza si è scontrata sulla corretta interpretazione dei presupposti per la formazione del silenzio-assenso, che ha assunto particolare rilevanza a seguito dell’introduzione dell’art. 2, comma 8-bis della legge n. 241/1990 secondo cui “le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, […] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
In tale prospettazione, mentre una prima opzione interpretativa ritiene sufficiente ai fini della formazione dello del silenzio-assenso il requisito del decorso del termine consentendo il prodursi degli effetti anche a fronte di una domanda non conforme alla legge, un diverso indirizzo giurisprudenziale – respingendo la ricostruzione sopra riportata ritiene imprescindibile per la formazione tacita del silenzio-assenso la contestuale presenza di i tutti presupposti e requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento.
In tale contesto, appare di particolare interesse la disamina della pronuncia Consiglio di Stato, sez. VI, 08/07/2022 n. 5746 che ha aderito all’orientamento secondo cui, in presenza di un’istanza aderente al modello normativo astratto, il silenzio-assenso si forma a prescindere dalla sussistenza dei presupposti sostanziali prescritti dalla legge per lo svolgimento dell’attività in quanto “l’impostazione di “convertire” i requisiti di validità della fattispecie ‘silenziosa’ in altrettanti elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento, vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione dell’istituto: nessun vantaggio, infatti, avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda”.[5]
In base all’indirizzo suesposto, dunque, “l’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore – rendere più spediti i rapporti tra amministrazione e cittadini, senza sottrarre l’attività al controllo dell’amministrazione – viene realizzato stabilendo che il potere (primario) di provvedere viene meno con il decorso del termine procedimentale, residuando successivamente la solo possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi ‘silenziosamente’, con la precisazione che “il silenzio-assenso non costituisce una modalità ‘ordinaria’ di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì costituisce uno specifico ‘rimedio’ messo a disposizione dei privati a fronte della inerzia dell’amministrazione, come confermato dall’art. 2, comma 9, della legge n. 241 del 1990[6], […]. Nello stesso senso depone anche l’obbligo di provvedere (sia pure redatto in forma semplificata)rispetto alle domande manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate, sancito dell’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990”.
La sentenza merita particolare attenzione anche per la parte in cui precisa che il decorso del tempo non può rilevare ai fini della formazione del silenzio-assenso in caso in “incofigurabilità” giuridici dell’istanza: più precisamente, “dai requisiti di validità – il cui difetto, come abbiamo visto, non impedisce il perfezionarsi della fattispecie – va distinta l’ipotesi della radicale “inconfigurabilità” giuridica dell’istanza: quest’ultima, cioè, per potere innescare il meccanismo di formazione silenziosa dell’atto, deve essere quantomeno aderente al ‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore”. [7]
Da quanto osservato discende altresì che l’applicabilità dell’istituto del silenzio-assenso ai soli procedimenti ad istanza di parte per ottenere il rilascio di provvedimenti amministrativi, comporta automaticamente l’esclusione di tutti restanti procedimenti edilizi diversi, per i quali non è previsto il silenzio-assenso in quanto gli stessi non costituiscono provvedimenti amministrativi, bensì atti privati che esulano dall’ambito di applicazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990. Si rileva, infatti, che “la segnalazione certificata di inizio di attività, costituisce uno strumento di liberalizzazione delle attività private – non più sottoposte ad un controllo amministrativo di tipo preventivo, ma avviabili sulla base di una mera segnalazione da sottoporre al successivo controllo amministrativo –, perché possa produrre effetti giuridici deve dunque rispondere al modello tipizzato dal legislatore, occorrendo, pertanto, non soltanto che le attività in concreto avviate siano riconducibili alle fattispecie astratte per cui è ammesso l’utilizzo della SCIA, ma anche che la segnalazione all’uopo presentata risulti veritiera e completa, essendo corredata dalla documentazione occorrente a porre l’Amministrazione in condizione di potere svolgere la successiva attività di verifica entro i termini all’uopo applicabili”; pertanto, “affinché la SCIA (o la DIA) possa essere idonea allo scopo, sono necessarie la sussistenza e la completezza della relativa documentazione, dovendo la stessa, anche se intesa quale atto del privato, corrispondere al modello legale per poter produrre effetti” (Consiglio di Stato sez. VII, 21/02/2023, n.1782).[8]
Condizioni e limiti all’annullamento dei titoli edilizi in autotutela.
In tema di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, la giurisprudenza ha affermato che tali provvedimenti sono attratti all’alveo normativo dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, i cui presupposti sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento e dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto anche conto delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.[9]
L’esercizio del potere di autotutela è, dunque, espressione di una rilevante discrezionalità che non esime l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l’ambito di motivazione esigibile è integrato dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione.[10]
Ciò significa che il potere attribuito all’Amministrazione si connota di un coefficiente di discrezionalità che si esprime attraverso la valutazione dell’interesse pubblico in comparazione con l’affidamento del destinatario dell’atto, con la dovuta precisazione che il potere di autotutela deve essere esercitato dalla P.A. entro un termine ragionevole, tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un affidamento sulla regolarità dell’autorizzazione edilizia. In merito alla parametrazione temporale in termini di ragionevolezza in relazione alla disposizione dell’art. 21-nonies, comma 1, si richiama la recente pronuncia n. 6387/2023 con cui il Consiglio di Stato ha riaffermato le coordinate ermeneutiche in materia di autotutela edilizia sancite dal Supremo Organo della giustizia amministrativa secondo cui “il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine “ragionevole” per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro”.
Il tema in oggetto impone poi un cenno alla disciplina del procedimento che segue l’annullamento di un titolo edilizio in quanto il D.P.R. n. 380/2001 – nell’equiparare in parte l’opera oggetto di un titolo edilizio annullato ad un’opera abusiva – prevede all’art. 38 la possibilità di evitare la demolizione delle stesse mediante l’irrogazione di una sanzione pecuniaria “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino”. Sul punto, la recente pronuncia Consiglio di Stato, sez. III, 11/10/2023, n. 8869 ha precisato che “l’Amministrazione comunale non può adottare, direttamente, un ordine di ripristino, piuttosto che la sanzione pecuniaria sostitutiva, dovendo prima pronunciarsi sulla possibilità di esitare, con il rilascio di un permesso di costruire postumo, l’originaria istanza presentata dal privato: solo all’esito di tale valutazione, e se e nella misura in cui il rilascio del permesso di costruire postumo non sia ritenuto possibile, l’amministrazione comunale può sanzionare con l’ordine di ripristino, o con la sanzione pecuniaria sostitutiva, le opere edilizie nel frattempo realizzate sulla base del titolo annullato”.
Il regime sanzionatorio più mite rispetto a quello previsto dall’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 è volto a tutelare l’affidamento generatosi in capo al privato sulla base di titolo annullato, la cui posizione è sensibilmente diversa rispetto a quella di coloro che hanno realizzato opere abusive senza alcun titolo, con l’opportuna specificazione che “la tutela dell’affidamento attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 d.P.R. 380/2001 non può giungere sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito”(Consiglio di Stato sez. VI, 04/01/2023, n.136).
Sicché, ciò che rileva ai fini del rilascio del titolo postumo ai sensi dell’art. 38, è la conformità sostanziale delle opere rispetto alla normativa vigente al momento in cui l’Amministrazione si è pronunciata la prima volta, e quindi deve ritenersi consentito all’Amministrazione, in tal sede, l’espletamento tardivo delle attività finalizzate ad accertare la sussistenza, al predetto momento, delle condizioni di fatto e di diritto richieste ai fini della conformità (edilizia, urbanistica, paesaggistica, ambientale, etc.). In proposito, si evidenzia, peraltro che, “proprio per la ragione che il riesame effettuato ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, non avviene nell’ambito della cornice giuridica di cui all’art. 36, del medesimo D.P.R., l’amministrazione può all’occorrenza decidere di rilasciare il permesso di costruire postumo con riferimento ad una parte soltanto delle opere oggetto della originaria istanza: non opera infatti, in tal caso, il principio – che invece si applica alla sanatoria ex art. 36 – secondo cui la sanatoria di opere abusive non è ‘frazionabile’, dovendo gli abusi valutarsi unitariamente nella loro globalità, in conformità al principio secondo cui la valutazione dell’abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate”.[11]
[1] cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 17/05/2023, n.4908; Consiglio di Stato, sez. IV, 04/02/2013, n. 644.
[2] cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/04/2014, n. 1820.
[3] cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 17/05/2023, n.4908, Consiglio di Stato, sez. IV, 10/01/ 2022, n. 148.
[4] La norma prosegue prevedendo che: “Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti”.
[5] Ad avviso dei giudici di Palazzo Spada ciò “è confermato da puntuali ed univoci indici normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire il silenzio-assenso sarebbe legato, non solo al decorso del termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo: i) l’espressa previsione della annullabilità d’ufficio anche nel caso in cui il “provvedimento si sia formato ai sensi dell’art. 20”, presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell’atto; ii) l’art. 2, comma 8-bis, della l. n. 241 del 1990 (introdotto dal d.-l. n. 76 del 2020, convertito dalla l. n. 120 del 2020) — nella parte in cui afferma che “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, […] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni” — conferma che, decorso il termine, all’Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela; iii) l’art. 2, comma 2-bis — prevedendo che “Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo […]” (analoga, ma non identica, disposizione è contenuta all’ultimo periodo dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001) — stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad un’attestazione che deve dare unicamente conto dell’inutile decorso dei termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego tempestivamente intervenuti); iv) l’abrogazione dell’art. 21, comma 2, della l.e n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato corso all’attività secondo il modulo del silenzio-assenso, “in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente”; v) l’art. 21, comma 1, della l. n. 241 del 1990 — secondo cui: “Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi […] —, da cui si desume che, in caso di dichiarazioni non false, ma semplicemente incomplete, il silenzio-assenso si perfeziona comunque”.
[6] Secondo cui “[l]a mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
[7] Nella pronuncia de qua i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto legittimo il diniego tardivo del permesso di costruire in ragione del fatto che l’intervento edilizio era stato realizzato prima della presentazione dell’istanza di permesso.
[8] Il tema sarà oggetto di approfondimento al par. 16 con riferimento al rilascio dei titoli edilizi in sanatoria.
[9] T.A.R. Napoli, (Campania) sez. III, 02/05/2023, n.2648; Consiglio di Stato sez. VI, 18/11/2022, n.10186.
[10] Consiglio di Stato sez. IV, 30/06/2023, n.6387 con riferimento a Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 17 ottobre 2017 n. 8 ha statuito che “l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati”, oltre che “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”.
[11] Consiglio di Stato, sez. III, 11/10/2023, n. 8869.