NOVEMBRE 2023 – Limiti di altezza tra fabbricati – Calcolo delle distanze tra edifici – Convenzioni tra privati in deroga alle distanze minime – possesso ad usucapionem di una servitù di mantenimento a distanza illegale.

Limiti di altezza tra fabbricati – Calcolo delle distanze tra edifici – Convenzioni tra privati in deroga alle distanze minime – possesso ad usucapionem di una servitù di mantenimento a distanza illegale.

 

 

Limiti di altezza tra fabbricati: il punto del Consiglio di Stato sui limiti fissati dal D.M. n. 1444/1968.

 

L’articolo 8 del D.M. n. 1444/1968 prescrive che «le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:

 

1) Zone A):

 

per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;

 

per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l’altezza massima di ogni edificio non può superare l’altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico.

 

2) Zone B):

 

l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all’art. 7.

 

3) Zone C): contigue o in diretto rapporto visuale con zone del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze compatibili con quelle degli edifici delle zone A) predette.

 

4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo art. 9».

 

In relazione a tale disposizione è stato statuito che «il dato letterale della norma indica chiaramente che si debba far riferimento a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale a dire immediatamente limitrofi. Non vi è alcuna ragione, testuale o logica, per estendere, invece, l’ambito dell’area di raffronto a tutto il “contesto urbanistico” […]. Anzi, una simile lata interpretazione finirebbe per svuotare di senso la previsione, rendendo, in sostanza, comparabili tra loro edifici anche posti in isolati stradali diversi e dunque, aventi differenti ubicazioni di riferimento.

 

Proprio in relazione a una formulazione testuale identica a quella del D.M. in esame contenuta nelle N.T.A. di uno strumento urbanistico, il Consiglio di Stato (Sez. IV, 09/09/2014, n. 4553) ha ritenuto che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l’assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21 ottobre 1995, n. 1448) (Cons. di Stato, sez. IV, n. 3184/2013)”.

 

Medesima ratio è rinvenibile nell’art. 8 del decreto ministeriale, sicché non vi è ragione di discostarsi dalla costante interpretazione della giurisprudenza» (T.A.R. Milano (Lombardia) sez. II, n. 1576/2020).

 

Ai fini dell’applicazione della norma de qua si è osservato che «per la definizione del concetto di “circostante o limitrofo” rileva la costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 settembre 2014, n. 4553; 14 maggio 2014, n. 2469), secondo cui, in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), la locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso, senza a tali fini poter estendere l’area di interesse ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto.

 

Ciò nonostante, l’intento di restringere l’area di confronto non può essere portata all’estremo di poter ritenere rilevanti ai fini del calcolo dell’altezza ammissibile i soli edifici confinanti, trattandosi di locuzione di distinto significato oggettivamente riferibile ad un ambito più circoscritto» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3115/2023)[1].

 

Si segnala, inoltre, un ulteriore precedente del Consiglio di Stato con il quale si è ritenuto che la valutazione dell’altezza degli edifici preesistenti non vada circoscritta all’interno della zona di interesse, né presupponga una identità di zona, atteso che «[…] la differenziazione per zone introduce un elemento di discontinuità e di frammentazione che, oltre a rendere più complessa e difficoltosa l’applicazione del criterio degli edifici preesistenti e circostanti (ai quali viene aggiunto, praeter legem e in via meramente interpretativa, quello dell’identità di zona), contrasta con la finalità del D.M. che è quella di garantire un’omogeneità nell’altezza dei nuovi edifici rispetto a quella degli edifici preesistenti, finalità che la differenziazione per zone è suscettibile di pregiudicare» (Consiglio di stato, sez. II, n. 8670/2023)[2].

 

 

Calcolo delle distanze tra edifici: i criteri stabiliti dai giudici di legittimità.

 

Con riferimento alle modalità di calcolo delle distanze tra edifici, preme richiamare una significativa pronuncia della Cassazione che, con la sentenza n. 10580 del 2019, ha ribadito «il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c., è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicchè la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto” (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016). Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell’art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare».

 

 

Convenzioni tra privati in deroga alle distanze minime: i limiti di ammissibilità.

 

A mente dell’indirizzo pretorio maggioritario «[…] in tema di distanze legali nelle costruzioni le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi, essendo dettate – contrariamente a quelle del codice civile – a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non sono derogabili dai privati. Ne consegue l’invalidità – anche nei rapporti interni – delle convenzioni stipulate fra proprietari confinanti le quali si rivelino in contrasto con le norme urbanistiche in materia di distanze, salva peraltro rimanendo la possibilità – per questi ultimi – di accordarsi sulla ripartizione tra i rispettivi fondi del distacco da osservare” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2117 del 04/02/2004, Rv. 569890; conformi, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6170 del 22/03/2005, Rv. 581472; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9751 del 23/04/2010, Rv. 612554; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 26270 del 18/10/2018, Rv. 650783)» (Cassazione civile, sez. II, 06/11/2020, n. 24827/2020).

 

Si è statuito, invero, che «[…] secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, mentre le deroghe pattizie sono consentite relativamente alle norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli, non altrettanto può dirsi in relazione alle disposizioni regolamentari in materia di distanze, poichè in tal caso la concessa azione di riduzione in pristino è volta a mantenere in vita un potere privato, concorrente con quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la rimozione dell’opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i propri mezzi dalla P. A. e la completa attuazione dell’interesse generale alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato: ciò a maggior ragione quando la norma regolamentare imponga di calcolare la distanza dal confine tra i fondi» con la conseguenza che, ove pure detto consenso fosse inteso come esplicitante la volontà delle parti di derogare alle norme regolamentari in tema di distanze dal confine, «si tratterebbe comunque di convenzione senz’altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perchè non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi generali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734; Cass. Sez. 2, 28/09/2004, n. 19449; Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez. 2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353; Cass. Sez. 2, 16/11/1985, n. 5626)» (Cassazione civile, sez. II, n. 3684/2021).

 

 

Il possesso ad usucapionem di una servitù di mantenimento a distanza illegale di una costruzione.

 

La pronuncia sopra ricordata ha affermato, peraltro, che per mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una dichiarazione unilaterale del proprietario del fondo vicino che acconsenta alla corrispondente servitù, «ma è necessario un contratto – essendo inidoneo, per i diritti reali, un atto ricognitivo – che dia luogo, appunto, alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l’immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio (arg. da Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353). Ed allora, per l’esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù in deroga alle distanze delle costruzioni o vedute, pur non occorrendo alcuna formula sacramentale, è comunque indispensabile che detta volontà sia deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l’accordo faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente (cfr. Cass. Sez. 3, 29/01/1982, n. 577; Cass. Sez. 2, 14/06/1976, n. 2207; Cass. Sez. 2, 19/06/1984, n. 3630)» (Cassazione civile, sez. II, n. 3684/2021).

 

Sul punto deve ricordarsi, invero, di come la giurisprudenza – chiamata a confrontarsi con la tesi per la quale sarebbe usucapibile la servitù di mantenimento di un’opera eretta in violazione della disciplina in materia di distanza – in un primo momento abbia ritenuto non ammissibile tale ipotesi laddove risultassero violate le norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali, non potendo l’ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l’inerzia del vicino, fosse idonea a determinare un aggiramento dell’interesse pubblico cui sono prevalentemente dirette le disposizioni de quibus[3].

 

Successivamente, capovolgendo tale indirizzo, la Corte di Cassazione ha mutato posizione, ritenendo ammissibile l’acquisto per usucapione della servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (Cassazione civile, sez. II, n. 4240/2010)[4], finanche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, sul rilievo che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem (Cassazione civile, sez. II, n. 3979/2013).

 

 

[1] https://www.lavoripubblici.it/news/violazione-distanze-altezze-tra-edifici-chiarimenti-consiglio-stato-30786

[2] https://lexambiente.it/materie/urbanistica/64-consiglio-di-stato64/17131-urbanistica-limiti-di-altezza-degli-edifici.html

[3] Cassazione civile, sez. II, n. 20769/2007.

[4] https://www.professionegiustizia.it/documenti/notizia/2021/usucapione-costruzione-distanza-irregolare-cassazione