NOVEMBRE 2023 – Usucapione a favore della PA – Convenzione di lottizzazione – Piani di recupero – L’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica – Standards urbanistici e deroga delle distanze minime.

Usucapione a favore della PA – Convenzione di lottizzazione – Piani di recupero – L’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica – Standards urbanistici e deroga delle distanze minime.

 

 

Usucapione a favore della P.A. in assenza di una procedura espropriativa dell’immobile per pubblica utilità.

 

In tema di espropriazione uno degli istituti maggiormente discussi è quello – di origine giurisprudenziale – relativo alla cd. «occupazione usurpativa», che ricorre nel momento in cui la privazione del possesso di un terreno privato da parte della P.A. avviene in assenza dei necessari presupposti di legge (quali, a titolo esemplificativo, la dichiarazione di pubblica utilità ovvero la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza) nonostante si verifichi l’occupazione con contestuale trasformazione irreversibile del suolo stesso[1].

 

In argomento, in questa sede si intende segnalare una recente pronuncia della Corte di Cassazione, alla cui attenzione si è posta una questione giuridica consistente nel seguente quesito: «[…] può considerarsi quale idoneo possesso “ad usucapionem” […] quello conseguito ed esercitato dalla P.A. per effetto di un’occupazione usurpativa, cioè non assistista “a monte” dall’instaurazione di una legittima procedura espropriativa dell’immobile per pubblica utilità?»

Orbene, la pronuncia de qua ha in primis rilevato che «la Corte di appello ha, con l’impugnata sentenza, risposto positivamente, aderendo – in base alla valorizzazione delle ragioni addotte a sostegno dell’indirizzo ritenuto preferibile e più convincente – all’orientamento maggioritario della giurisprudenza (amministrativa e di legittimità), sul presupposto della ravvisata compatibilità tra usucapione a favore della P.A. e occupazione usurpativa, ovvero disancorata dall’esercizio dei poteri ablatori o in carenza dei presupposti per esercitarli in funzione della realizzazione di una procedura espropriativa per pubblica utilità, e ciò sul presupposto che, verificandosi tale situazione, la P.A. viene a trovarsi in una posizione paritetica con il privato proprietario dell’immobile, il quale – a fronte di un possesso di tal fatta da parte della stessa P.A. – rimane legittimato ad esercitare le azioni di “restitutio in integrum” o di risarcimento danni, contestando la sussistenza delle necessarie condizioni imposte dall’art. 1158 c.c., per l’acquisto a titolo originario del bene controverso da parte della P.A.».

 

Ciò detto, la Cassazione ha ritenuto di confermare la sentenza di appello atteso che «[…] alla stregua del chiaro principio enunciato con la sentenza n. 11147/2012 della I Sez. civ. (peraltro costituente l’unico precedente in termini sulla specifica questione, richiamato anche nella stessa decisione della Corte di appello), si è, condivisibilmente, ritenuto che l’occupazione usurpativa di un fondo da parte della P.A. è compatibile con l’usucapione del fondo medesimo da parte dell’ente occupante, in quanto la totale assenza dei presupposti di esercizio del potere ablativo, che connota detta occupazione, lascia intatta la facoltà del proprietario di rivendicare il bene, salvo il limite di diritto comune dell’intervenuta usucapione, senza che assuma rilievo, in senso contrario, la facoltà di acquisizione sanante del D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis, essendo l’acquisto postumo del diritto di proprietà logicamente incompatibile con l’intervenuto acquisto retroattivo del medesimo diritto a titolo di usucapione.

 

Si è, inoltre, aggiunto che, a fronte di una mera condotta della P.A., illecita proprio perché avulsa dall’esercizio di poteri espropriativi, l’evocazione dell’art. 97 Cost. […] non può considerarsi pertinente, dovendo, nella situazione data, trovare applicazione la disciplina di diritto comune.

 

L’impianto argomentativo e l’approdo raggiunto dalla richiamata pronuncia risultano giustificati anche in conseguenza dei principi espressi dalle Sezioni unite con la precedente sentenza n. 21575/2011, con cui si è riconosciuto, in presenza di un’occupazione usurpativa della P.A. (comunque idonea a fondare un possesso utile “ad usucapionem”), il diritto del proprietario dell’immobile illegittimamente occupato di esercitare l’azione recuperatoria o risarcitoria e, in difetto dell’instaurazione della prima ed in conseguenza del possesso ultraventennale da parte della P.A., legittima, in favore di quest’ultima, la dichiarazione di acquisto per usucapione.

 

L’appena citata sentenza delle Sezioni unite ha, in particolare, precisato, da un lato, che “non è vero che la realizzazione abusiva (al di fuori di una valida procedura ablativa o di imposizione coattiva di una servitù) di un’opera privata di pubblica utilità privi il proprietario del fondo del diritto alla “restituito in integrum” (in piena conformità, del resto, ai principi affermati dalla CEDU), e, dall’altro, che “l’usucapione fa venir meno l’elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, consistente nell’illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell’acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell’interesse all’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto”» (Cassazione civile, sez. II, n. 18445/2023)[2].

 

 

Convenzione di lottizzazione: la scadenza del termine per urbanizzare l’area.

 

In materia di convenzioni di lottizzazione la giurisprudenza maggioritaria ha chiarito che «la scadenza del termine per l’ultimazione dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione previste nella convenzione urbanistica non fa venire meno la relativa obbligazione, mentre proprio da tale momento, in base all’art. 2935 c.c., inizia a decorrere l’ordinario termine di prescrizione decennale, ai sensi dell’art. 2946 del codice civile (cfr., Cons. Stato, sez. II, 20 aprile 2020 n. 2532; Id., sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3127n. 3126).

 

Sicché, il Comune, una volta consumato il termine di validità della convenzione, ha dieci anni di tempo per poter azionare i diritti ivi previsti (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2019, n. 7008).

 

La scadenza della convenzione di lottizzazione riguarda, infatti, l’efficacia del regime urbanistico introdotto dalla convenzione, non anche gli effetti obbligatori che la stessa convenzione va a produrre tra le parti, con la conseguenza che le parti possono anche il termine di scadenza esigere – nel rispetto del termine ordinario di prescrizione decorrente dalla scadenza dello strumento urbanistico attuativo – l’adempimento degli obblighi che la controparte si è assunta con la convenzione, quali la corresponsione di somme a titolo di oneri o la realizzazione di opere di urbanizzazione (cfr., Cons. Stato, sez. II, 4 maggio 2020, n. 2843; Id.. sez. IV, 26 agosto 2014, n. 4278).

 

Ne deriva che la prescrizione decorre solo dal termine ultimo di validità della convenzione, ordinariamente previsto in dieci anni o nel diverso termine stabilito dalle parti; mentre il Comune, una volta consumato il termine di validità della convenzione, ha ancora dieci anni di tempo, ovvero il termine ordinario di prescrizione, per poter azionare i diritti previsti dalla convenzione stessa» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 8526/2023).

 

 

 

Piani di recupero: la significativa urbanizzazione dell’area non può derogare all’obbligo dello strumento attuativo.

 

Con riferimento ai piani di recupero urbanistico una recente pronuncia – richiamando i più significativi orientamenti giurisprudenziali – ha precisato che «sono strumenti pianificatori attuativi che assolvono ad una funzione “riparatoria” del tessuto urbano, fronteggiando una situazione creatasi in via di fatto e tenendo conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, anche delle generali esigenze di pianificazione del territorio comunale (Cons. St., sez. II, sent. n. 6762/ 2020). In particolare, i piani di recupero costituiscono “lo strumento individuato dal legislatore per attuare il riequilibrio urbanistico di aree degradate o colpite da più o meno estesi fenomeni di edilizia “spontanea” e incontrollata, legittimati, appunto, ex post. Essi, cioè, hanno sì l’obiettivo di “recupero fisico” degli edifici, ma collocandolo in operazioni di più ampio respiro su scala urbanistica, in quanto mirate alla rivitalizzazione di un particolare comprensorio urbano” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 17.05.2021, n. 3836)».

 

Si è osservato che «l’esistenza di una “edificazione disomogenea” non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona (cfr., Consiglio di Stato sez. V, n. 5078/2014; Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2470/2012)», derivandone che «non è possibile ipotizzare una deroga all’obbligo dello strumento attuativo anche nelle zone significatamente urbanizzate. In giurisprudenza, infatti, si è condivisibilmente affermato che il piano di recupero configura “lo strumento per attuare il riequilibrio nelle aree degradate e non è ipotizzabile che in tali aree, pur compromesse da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata, il piano attuativo possa essere eluso con titoli edilizi singoli per costruire, pur attenendo questi ultimi a lotti prospicienti su aree urbanizzate e interclusi”, in quanto lo stesso “attiene non soltanto al recupero fisico degli edifici, ma anche e soprattutto rappresenta un’operazione complessa a scala urbanistica, che deve puntare alla rivitalizzazione di un comprensorio urbano”, con la conseguenza che “il piano attuativo è necessario non solo per i lotti interclusi insistenti in zone urbanizzate, ma anche per le aree (…) già compromesse da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata”, e l’imposizione di una previa scelta di pianificazione urbanistica che condiziona e a cui sono subordinati gli interventi edificatori singoli trae la propria giustificazione (meglio sarebbe a dire la propria necessità) “proprio in considerazione del fatto che la zona in questione, in quanto già compromessa sotto l’aspetto urbanistico, ambientale e paesistico, abbia bisogno di necessari interventi di riqualificazione ambientale e paesistica” (cfr. Cons. St., Sez. V., 14.10.2014, n. 5078)».

 

Si è statuito, in particolare, che «il Piano di recupero può essere effettuato anche in zone di completa edificazione […], posto che “la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona individuata si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica ed equilibrato sviluppo e assetto del territorio, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare uno sviluppo incontrollato senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area. Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona” (cfr., Cons. St., n. 5078/2014)» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 8141/2023) [3].

 

 

L’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica.

 

L’articolo 9 del D.P.R. n. 380/2001 regola l’«Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica», stabilendo al primo comma che «salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490[4], nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti:

 

  1. a) gli interventi previsti dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell’articolo 3[5] che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse;

 

  1. b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà».

 

Il comma secondo della disposizione prevede inoltre che «nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse»: si tratta, cioè degli interventi di ristrutturazione edilizia. Inoltre, prosegue la norma, «tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo».

 

In proposito preme rammentare che la giurisprudenza ha chiarito che «la finalità della norma è quella di realizzare un contemperamento tra gli interessi del privato, di esercitare comunque lo jus aedificandi a fronte dell’omesso esercizio del potere pianificatorio, e dell’amministrazione di non vedersi pregiudicata in fatto la funzione di regolamentazione urbanistica (cfr. Corte costituzionale n. 84 del 2017).

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 84 del 2017, si è pronunciata sui limiti agli interventi di nuova edificazione a destinazione produttiva, fuori del perimetro dei centri abitati, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante “Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)”, trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)”, sollevate, in riferimento agli artt. 3,41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione.

 

Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, per la realizzazione di un insediamento produttivo in “zona bianca” e fuori dal perimetro del centro abitato, è richiesto un doppio limite previsto dalla citata disposizione, riferito sia alla soglia di cubatura consentita, sia alla misura massima della superficie coperta realizzabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1461 del 2010, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 5 febbraio 2009, n. 679; 26 settembre 2008, n. 4661; 19 giugno 2006, n. 3658).

 

La norma, pertanto, individua due requisiti generali ed autonomi, aventi contenuto eterogeneo, che devono contestualmente concorrere ai fini del rilascio del titolo edilizio ed il regime in questione, per sua natura transitorio, ha natura di mera salvaguardia in attesa della futura pianificazione» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2390/2020).

 

Sotto distinto profilo è stato, peraltro, precisato che «”l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.” (Consiglio di Stato Sez. IV, 20 aprile 2018, n. 2397) e che “In linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo. Pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione)” (Consiglio di Stato Sez. IV, 08 febbraio 2018, n. 825 e Consiglio di Stato Sez. IV, 12 luglio 2018, n. 4271)» e richiamata la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato «per la quale, qualora lo strumento urbanistico generale subordini l’edificabilità alla previa emanazione di un piano attuativo, ai sensi dell’art. 9 del testo unico n. 380 del 2001 l’emanazione di questo va considerata indefettibile, tranne il caso pressoché di scuola in cui un terreno di ridotte dimensioni sia completamente circondato da edifici (Sez. IV, nn. 6814 e 6802 del 2020; nn. 8490 e 7463 del 2019; Sez. I, n. 1718 del 2019; Sez. IV, n. 2707 del 2012; nn. 6625, 2674 e 840 del 2008; n. 3007 del 2007; 4812 del 2003)» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 8313/2020)[6].

 

Standards urbanistici e deroga delle distanze minime: la pronuncia della Corte Costituzionale.

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 85 del 2023, si è espressa sulle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis, comma 1 del D.P.R. n. 380/2001 in riferimento agli articoli 3 e 117, commi secondo, lettere m) e s) della Costituzione e, «in via consequenziale», dell’articolo 103, comma 1-bis della L.R. n. 12/2005 in relazione all’articolo 117, commi secondo, lettere m) e s), e terzo della Costituzione.

 

Per quanto qui di interesse – anticipando che con la decisione in commento sono state dichiarate inammissibili le questioni sollevate – si evidenzia come la Corte abbia illustrato brevemente «le coordinate normative entro le quali si collocano le questioni in esame», precisando che «la disciplina degli standard urbanistici rinviene il suo fondamento nell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica17 agosto 1942, n. 1150), con cui è stato introdotto l’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, il quale, ai commi ottavo e nono, stabilisce che:

 

«[8] In tutti i comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.

 

[9] I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore della medesima».

 

All’attuazione di quanto specificamente previsto dal predetto comma nono ha provveduto il d.m. n. 1444 del 1968, il quale ha optato per l’individuazione delle percentuali di dotazioni infrastrutturali strettamente collegate alle destinazioni funzionali delle diverse zone in cui doveva essere ripartito dal piano regolatore generale il territorio comunale. Gli artt. da 3 a 5, infatti, definiscono riassuntivamente le percentuali e le quantità di aree da destinare a «spazi pubblici [,] attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi», differenziate in ragione del fabbisogno attribuito a ciascuna zona territoriale omogenea.

 

Tale sistema, strettamente correlato all’esigenza di regolare l’ordinato sviluppo delle infrastrutture soprattutto nel tessuto urbano, è rimasto sostanzialmente invariato pur nel momento in cui le regioni si sono dotate di una legislazione urbanistica improntata a diversi modelli pianificatori».

 

La Corte ha così ricordato che nel caso della Regione Lombardia «ciò è avvenuto dapprima con la legge della Regione Lombardia 15 aprile 1975, n. 51 (Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico) e, successivamente, con la legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. Quest’ultima, all’art. 9, affida al piano dei servizi il compito di assicurare «una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, le eventuali aree per l’edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato» (comma 1)» evidenziando come «tra i criteri cui i comuni si devono attenere nella redazione del piano dei servizi vengono elencati parametri non rigidamente vincolati alle funzioni assegnate alle varie porzioni del territorio comunale, dovendo la dotazione di infrastrutture dipendere dalla popolazione stabilmente residente per come gravitante sulle diverse tipologie di servizi distribuiti sul territorio, dalla popolazione da insediare secondo le previsioni del documento di piano e su quella comunque presente sul territorio (pendolari e turisti) (comma 2). Il medesimo articolo, al comma 3, stabilisce altresì che «è comunque assicurata una dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico pari a diciotto metri quadrati per abitante» […]» e che «l’introduzione di tali regole, destinate a vincolare i comuni lombardi chiamati, dopo l’approvazione della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ad aggiornare gli strumenti pianificatori generali, ha spinto il legislatore lombardo a prevedere che questi ultimi potessero derogare in via più generale alle disposizioni contenute nel d.m. n. 1444 del 1968.

 

Con l’art. 103, comma 1-bis, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge reg. Lombardia n. 4 del 2008, si è infatti stabilito che «[a]i fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 […], fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario».

 

Nell’ambito di questa evoluzione normativa […] è successivamente intervenuto l’art. 2-bis, comma 1, t.u. edilizia, inserito dall’art. 30, comma 1, lettera 0a), del d.l. n. 69 del 2013, come convertito. Esso stabilisce che «[f]erma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali». Disposizione, questa, che ha dato luogo a incertezze applicative».

 

Orbene, poste tali premesse la Corte ha ritenuto, da un lato, «manifestamente errato il presupposto da cui muove il rimettente, secondo cui l’art. 103, comma 1-bis, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 costituirebbe «attuazione di quanto stabilito» nell’art. 2-bis, comma 1, t.u. edilizia» atteso che «la disposizione regionale è stata inserita nel 2008 all’interno della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 nel 2008, e, quindi, in un momento in cui l’art. 2-bis, comma 1, t.u. edilizia (introdotto solo con il d.l. n. 69 del 2013, come convertito) e la supposta deroga in esso contenuta non facevano ancora parte dell’ordinamento giuridico» dovendo, pertanto «escludersi che tra le due disposizioni sussista quel nesso di reciproca implicazione che vi ha visto il rimettente restando così del tutto indimostrata, con riguardo alla questione avente ad oggetto l’art. 2-bis, comma 1, t.u. edilizia, la necessità che «il giudice debba effettivamente applicare la disposizione della cui legittimità costituzionale dubita nel procedimento pendente avanti a sé (ex plurimis, sentenze n. 202 e n. 15 del 2021, n. 253 del 2019 e n. 20 del 2018)» (sentenza n. 31 del 2022)»; dall’altro parimenti erroneo è stato considerato «l’ulteriore assunto del rimettente, secondo cui la decisione comunale di sovradimensionare gli standard costituirebbe esercizio di un potere derogatorio riconducibile al richiamato art. 103, comma 1-bis, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.

 

Quest’ultimo stabilisce infatti […] che i comuni lombardi sono autorizzati a derogare alle disposizioni del d.m. n. 1444 del 1968 «[a]i fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti». Tali ultime previsioni si riferiscono ai termini a disposizione dei comuni per avviare il procedimento di adeguamento dei piani regolatori generali alla nuova conformazione dei piani di governo del territorio.

 

L’art. 26, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 disponeva che i comuni deliberassero l’avvio del procedimento di adeguamento dei piani regolatori generali vigenti entro un anno dall’entrata in vigore della medesima legge e procedessero «all’approvazione di tutti gli atti di PGT secondo i principi, i contenuti ed il procedimento» ivi stabiliti.

 

Il comma 3 del medesimo articolo, nella formulazione originaria, tramite il rinvio al precedente art. 25, comma 2, disciplinava i tempi di adeguamento dello strumento urbanistico generale nel caso in cui questo fosse stato approvato prima dell’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 51 del 1975.

 

Dopo le novità apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), della legge della Regione Lombardia 10 marzo 2009, n. 5 (Disposizioni in materia di territorio e opere pubbliche – Collegato ordinamentale), l’art. 26, comma 3, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 regola oggi l’avvio del procedimento di approvazione del piano di governo del territorio, che deve essere stato deliberato dai comuni entro il 15 settembre 2009.

 

Alla luce di ciò, si deve ritenere che la deroga consentita dal citato art. 103, comma 1-bis (introdotto con la legge reg. Lombardia n. 4 del 2008) ha avuto un ambito di applicazione limitato sia dal punto di vista funzionale che temporale, avendo operato unicamente nella fase in cui i comuni hanno adeguato i loro piani regolatori generali (PRG) in vista dell’adozione dei piani di governo del territorio (PGT).

 

Come nel caso oggetto della sentenza n. 13 del 2020, anche in quello in esame il rimettente non ha motivato intorno alla rilevanza di una questione riguardante una «disciplina volta a regolare la sola fase transitoria di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, modulata secondo precise scansioni temporali, e non la revisione dei piani di governo del territorio già approvati». Anche la giurisprudenza amministrativa, del resto, ha ritenuto che i comuni lombardi siano autorizzati a derogare agli standard previsti dalla normativa statale «solo in sede di redazione dei nuovi PGT sostitutivi dei precedenti PRG» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 23 dicembre 2021, n. 8561, e TAR Lombardia, sezione seconda, sentenza 14 agosto 2020, n. 1576; analogamente, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 7 febbraio 2020, n. 985, e TAR Lombardia, sezione seconda, sentenza 22 luglio 2020, n. 1413)».

 

Per tali ragioni è stato quindi ritenuto che «nel giudizio a quo, non operando né la deroga di cui alla norma statale, né, ancor prima, quella di cui alla norma regionale, l’asserito sovradimensionamento della dotazione a standard vada riferito, ai fini del sindacato sul relativo potere discrezionale del Comune, ai limiti e ai rapporti disciplinati dallo stesso d.m. n. 1444 del 1968, che risulta applicabile alla fattispecie da cui trae origine la controversia.

 

Le questioni sollevate sono quindi inammissibili, perché esse, e in particolare quelle aventi ad oggetto l’art. 2-bis, comma 1, t.u. edilizia, muovono da un presupposto interpretativo manifestamente erroneo, che le rende prive del requisito della rilevanza» (Corte costituzionale, sentenza n. 85/2023).

 

 

 

[1] https://www.diritto.it/le-condotte-illecite-della-pubblica-amministrazione-incidenti-sul-diritto-di-proprieta/

[2] https://www.dirittopa.it/it/interventi/espropriazione/occupazione-senza-titolo-e-usucapione-del-fondo-occupato/

[3] https://lexambiente.it/materie/urbanistica/64-consiglio-di-stato64/17085-urbanistica-piani-di-recupero-urbanistico.html

[4] Il riferimento, attualmente, è da intendersi al D.lgs. n. 42/2004 (cd. «Codice dei beni culturali e del paesaggio»).

[5] Si tratta degli interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria e quelli di restauro e risanamento conservativo.

[6] Cfr. anche https://www.deiurepublico.it/maggio-2021-attivita-edilizia-svolta-in-assenza-di-pianificazione-urbanistica-ai-sensi-dellarticolo-9-d-p-r-n-380/