Ristrutturazione – nuova costruzione cambio d’uso limiti – pertinenze urbanistiche
Le differenze tra ristrutturazione edilizia, nuova costruzione, restauro e risanamento conservativo.
La presente trattazione intende affrontare la disciplina degli interventi edilizi come normata dal D.P.R. n. 380/2001, dando conto degli approdi giurisprudenziali che al momento hanno caratterizzato gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità e amministrativa, con particolare riferimento alla definizione degli interventi edilizi – che costituisce la base per individuare il titolo abilitativo necessario per eseguire legittimamente le opere – nonché sulle conseguenze dell’esecuzione di interventi in assenza o in difformità del titolo abilitativo e sulle problematiche connesse all’operatività degli istituti volti a ricondurre le opere abusive alla legalità.
Delineate sommariamente le categorie da esaminarsi nel corso del presente studio, si può iniziare l’analisi partendo da una serie di pronunce con cui la giurisprudenza ha definito lo spartiacque tra gli interventi di nuova costruzione e di interventi di ristrutturazione edilizia chiarendo che “l’intervento di nuova costruzione consiste in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell’irreversibilità spazio-temporale dell’intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma stabilita” (Consiglio di Stato sez. VI, 21/06/2023, n.6091).
Per contro, “l’intervento di ristrutturazione edilizia, invece, sussiste quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria, l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione”; sulla scorta di ciò, “nella nozione di nuova costruzione possono, dunque, rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell’entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell’immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l’opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente”.[1]
Ciò posto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato evidenzia come, a sua volta, la nozione di ristrutturazione edilizia debba essere distinta dagli interventi di restauro e risanamento conservativo in quanto “mentre la ristrutturazione edilizia può condurre ad un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, il restauro e il risanamento conservativo non possono mai portare a ridetto organismo del tutto o in parte diverso dal preesistente, avendo sempre la finalità di conservare l’organismo edilizio ovvero di assicurarne la funzionalità” (Consiglio di Stato sez. VI, 18/07/2023, n.7016).
Nel dettaglio, “il restauro o risanamento conservativo (art. 31, lett. c, l. 457/78 e attuale art. 3, comma 1, lett. c, d.p.r. n. 380/2001) è distinto dalla ristrutturazione edilizia (art. 31, lett. d, l. n. 457/78 e attuale art. 3, comma 1, lett. d, d.p.r. n. 380/2001), suscettibile di tradursi anche nella ricostruzione e demolizione di un organismo edilizio a parità di superficie, volume e sagoma”, con la conseguenza che “l’attività di ricostruzione di un edificio che comporti mutamenti morfologici non può in alcun caso essere ricompresa nel concetto di risanamento conservativo o manutenzione straordinaria, poiché, in tali casi, è necessario che l’edificio rimanga identico nel rispetto dei limiti tipologici, strutturali e formali, anche quando si proceda al rifacimento parziale dei muri perimetrali”.
D’altra parte, “costituisce costruzione ex novo e non già ristrutturazione, ne’ tantomeno restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato, la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per se’ inidonee a definire l’esatta volumetria della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, ne’ alla sua demolizione e fedele ricostruzione bensì a realizzare uno del tutto nuovo e diverso”.
Cambio di destinazione d’uso in manutenzione straordinaria: i limiti di ammissibilità.
La modifica di destinazione d’uso non costituisce una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì l’effetto dello stesso in quanto la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenute nell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ma compare nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo – come per la manutenzione straordinaria – ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica, come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lett. c), che può determinare un cambio delle destinazioni d’uso, purché “nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso” che i relativi interventi devono comunque rispettare.
Per quanto attiene agli interventi di manutenzione straordinaria, il menzionato art. 3, comma 1 lett. b), come modificato dall’art. 10, comma 1, lett. b) della legge n. 120/2020, ricomprende tra gli “interventi di manutenzione straordinaria”: “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico”.[2]
Secondo l’attuale paradigma della manutenzione straordinaria tale limite negativo non opera più in assoluto – salvo i casi di frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere – ma esclusivamente per quelle modifiche che siano “urbanisticamente rilevanti” e “implicanti incremento del carico urbanistico”, con la conseguenza che “le modifiche di destinazione d’uso che possono conseguire agli interventi riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria, pure dopo la novella del 2020, sono solo quelle tra categorie urbanistiche omogenee, tale essendo l’inequivoco significato della dicitura “urbanisticamente rilevanti” e “non implicanti aumento del carico urbanistico” previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2011, anche nella sua attuale formulazione” (Consiglio di Stato sez. II, 24/04/2023, n.4110).
Ad avviso dei giudici, “esso va invero individuato avuto riguardo alle previsioni dell’art. 23-ter inserito nel T.u.e. col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164), che le ha introdotte al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti”.
In proposito si rammenta che il richiamato art. 23-ter, rubricato “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”, al comma 1 dispone che “salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.
Sulla scorta di quanto sopra, “la disposizione pertanto che riduce a cinque le categorie previste (tra le quali, per quanto di interesse, menziona separatamente la produttiva e direzionale, da un lato, e la commerciale, dall’altro) individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante”, appunto, il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”, appunto)”.[3]
Individuazione degli elementi costitutivi della pertinenza urbanistica.
In materia urbanistico-edilizia, la nozione di pertinenza è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonoma funzionale, mentre è inconferente l’art. 3, comma 1, lett. e. 6) del D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui rientrano tra gli interventi di nuova costruzione anche “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale”) in quanto tale previsione non pone, essa stessa, la definizione di pertinenza, bensì la presuppone, ragione per cui la nozione di pertinenza, ai fini urbanistici, deve essere tratta aliunde, e deve rispettare le caratteristiche individuate dalla giurisprudenza.[4]
Per una esaustiva definizione della pertinenza, anche allo scopo di distinguerla dalla pertinenza civilistica, occorre dunque richiamare l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza amministrativa secondo cui: “il concetto di pertinenza urbanistica è, infatti, diverso e più ristretto rispetto alla corrispondente nozione civilistica di pertinenza e si identifica con il manufatto di modeste dimensioni, con funzioni soltanto accessorie dell’edificio principale, coessenziale quindi ad esso e privo di autonomo valore di mercato”. Detto altrimenti, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, “la pertinenza urbanistico-edilizia deve essere preordinata a un’esigenza effettiva dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale e oggettiva. Il manufatto, non deve altresì possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede” (Consiglio di Stato sez. VII, 03/04/2023, n.3422).
In ragione di quanto sopra, non può essere riconosciuta la natura pertinenziale nel caso in cui sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad esempio una tettoia, che alteri la sagoma dell’edificio.[5] Allo stesso modo, è stato escluso che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca pertinenza in senso urbanistico in quanto la stessa integra un nuovo locale autonomamente utilizzabile il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.[6]
Diversamente, la giurisprudenza ha riconosciuto che l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni rientra nell’ambito delle pertinenze – e non integra violazione né degli indici di copertura né degli standard – atteso che non aumenta il carico urbanistico della zona e che i vani per impianti tecnologici sono sempre e comunque consentiti; in proposito si richiama la pronuncia T.A.R. Potenza, (Basilicata) sez. I, 08/05/2023, n. 268 in cui è stata esclusa l’applicazione dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui le piscine non possono essere considerate come pertinenze urbanistiche, ma vanno qualificate come interventi di nuova costruzione, dal momento che tale orientamento giurisprudenziale si applica esclusivamente alle piscine di grandi dimensioni. [7]
[1] Si legge nella pronuncia de qua che “ancorché il concetto di ristrutturazione edilizia sia stato ampliato alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale, esso non può comunque ontologicamente prescindere dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione. Connaturata alla ristrutturazione edilizia, infatti, è la ragion d’essere del recupero e della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, strumentale alla sempre più avvertita esigenza di contenere il consumo di suolo”.
[2] La norma prosegue prevedendo che: “Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso. Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono comprese anche le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.
[3] Per tali ragioni, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello del Comune che contestava la sentenza con cui il T.A.R. aveva accolto il ricorso di una società contro la dichiarazione di inefficacia di una CILA riferita al cambio di destinazione d’uso senza opere da commerciale ad artigianale di una parte del fabbricato, giustificata dal regime di maggior favore introdotto dall’art. 10 del D.L. n. 76/2020 con riferimento agli interventi di manutenzione straordinaria implicanti la modifica di destinazione d’uso – prima vietati.
[4] Sul punto: cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 14/03/2023, n.2660; Consiglio di Stato sez. IV, 13/07/2022, n. 5926.
[5] Consiglio di Stato sez. VII, 18/01/2023, n.612.
[6] Consiglio di Stato sez. VI, 24/01/2022, n. 469.
[7] cfr. Consiglio di Stato Sez. VI, 03/10/2019 n. 6644; Consiglio di Stato Sez. VI 01/10/2019, n. 6576; Consiglio di Stato, Sez. V, 16/04/2014 n. 1951; cfr. pure Cassazione Penale Sez. III, 07/01/2019 n. 342; Cassazione Penale Sez. III, 22/02/2018, n. 854; Cassazione Penale Sez. III 14/12/2016, n. 52835.